Halloween Slasher Blog: L’ondata post Scream

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Non ci potevamo far mancare uno slasher anni ’90 in questa rassegna di Halloween. Solo che era difficile sceglierne uno solo per analizzarlo, e non perché mi piangesse il cuore a lasciar fuori qualcosa. Semmai per il problema opposto: non riuscivo a trovarne uno che valesse la pena di consigliarvi a cuor leggero senza
a) Giustiziare la critica cinematografica in quanto tale.
b) Polverizzare quel poco di credibilità che mi è rimasta da quando ho rivalutato So Cosa Hai Fatto.
c) Perdere quei tre o quattro lettori ancora convinti che io sia una persona seria.
E così ho optato per lo specialone cumulativo.
Escludendo dal novero, per schiacciante superiorità (forse escluso il terzo, ma neanche troppo), i seguiti di Scream, il secondo ciclo produttivo dello slasher americano consta di prodotti fatti davvero con la fotocopiatrice. Lo si può notare a partire dai poster, tutti realizzati con la tecnica dei faccioni schierati in formazione. Di solito, la final girl è in primo piano, così si capisce subito chi sopravviverà e chi, al contrario, sarà destinato a fare una brutta fine. Forse, lo slasher della seconda metà degli anni ’90, è ancora più schematico e riconoscibile di quello del decennio precedente. Avendo perduto l’innocenza, e quindi acquisito la consapevolezza nel 1996, si attiene alle regole in maniera così rigida da sfiorare l’autoparodia in molti casi.
E tuttavia, l’horror è rinato ed è prosperato proprio grazie a queste produzioni patinatissime che richiamavano frotte di adolescenti in sala, e in seguito sul mercato home video, a vedere loro coetanei fatti a brandelli.

Brittany Murphy in Cherry Falls (2000)

Brittany Murphy in Cherry Falls (2000)

La prima cosa che salta agli occhi, accostandosi a questa stagione dell’horror oggi ripudiata, è la ricchezza ostentata dell’ambiente in cui si svolgono le vicende dei vari film. Se lo slasher anni ’80 era piccolo-borghese o addirittura (pensiamo a My Bloody Valentine) di bassa estrazione sociale, quello anni ’90 presenta personaggi, molto giovani, che conducono la vita di adulti miliardari. Non è cominciato così: Scream e So Cosa Hai Fatto raccontavano di ragazzi ancora nella norma e anzi, il secondo parlava di un piccolo paese di pescatori, da cui i protagonisti volevano fuggire.
È a partire da Urban Legend (Jamie Blanks – 1998) che la ricchezza diventa una costante. E ce la porteremo dietro per gran parte del nuovo secolo, soprattutto nei remake successivi al 2003. Anche se non si accenna alle condizioni economiche dei vari morituri, le location in cui si muovono sono sempre sfarzose, di lusso. Scuole che sembrano alberghi a cinque stelle, macchinoni, locali che solo a metterci piede ti tolgono un rene, vestiti e acconciature che neanche alla passerella della Notte degli Oscar, feste con centinaia di persone organizzate in super ville e via così, in un processo di costruzione di un mondo sempre più fittizio, che richiamasse in qualche modo alcuni prodotti di grande successo del piccolo schermo, da cui poi moltissimi degli attori presenti in questi film provenivano. In alcuni casi, come quello di The Pool (Boris von Sychowski – 2001), curioso slasher tedesco girato a Praga con cast internazionale, la faccenda raggiunge il parossismo.

Se, pur nello stereotipo più becero, era ancora possibile identificarsi con alcuni dei personaggi rappresentati nei vari Venerdì XIII e Halloween, con le caricature degli anni ’90, l’empatia non è più richiesta, neanche in minima parte. Sono quasi sempre persone sgradevoli, incapaci di provare i più rudimentali sentimenti positivi, che esibiscono la propria superficialità con una bella dose di arroganza cafona e sono anche vuote di ambizioni o di una semplice prospettiva per il futuro.
Amorfi, indolenti, annoiati, quasi si lasciano massacrare perché non c’è poi molto di meglio da fare. Questi i protagonisti dello slasher anni ’90. Final girl spesso comprese.
È un’idea craveniana e ne abbiamo già parlato, ma viene portata all’esasperazione e perde persino la funzione di critica sociale presente in Scream, per diventare una scusa per la scrittura pigra e posticcia. E per giustificare la mattanza senza che il pubblico venisse coinvolto emotivamente.

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Danielle Harris in Urban Legend (1998)

Mattanza poi, sempre molto edulcorata rispetto al bagno di sangue degli anni ’80, perché (ed è fondamentale sottolinearlo) lo slasher nato sulla scia di Scream è il primo filone dell’horror a essere influenzato dall’ondata censoria che caratterizza, ancora oggi, moltissimo cinema dell’orrore commerciale. Il risultato è che gran parti degli omicidi avvengono fuori campo o, quando si è obbligati e uccidere in bella vista, le cesoie del montatore di turno vanno a tagliare proprio nell’esatto istante in cui l’arma del caso incontra la carne della vittima. Per un ritorno in grande stile del gore, e non in ambito indipendente, dobbiamo aspettare Saw e tutto il torture porn che da esso sarebbe derivato.
È questo l’esatto momento in cui l’horror adulto viene relegato in un angolino, visto da pochi e apprezzato solo da una fascia di spettatori di nicchia. L’età dei protagonisti si abbassa in maniera vertiginosa, e non solo nello slasher, dove è sempre stato così, ma anche nell’horror sovrannaturale. È il teen movie su scala industriale, che arriva a cannibalizzare ogni genere.
Se ci pensate, è un modello che ha resistito fino a oggi e ha attraversato indenne due decenni di film. Sì, è cambiato il linguaggio, lo slasher non è più il re incontrastato del box office e al suo posto sono apparsi nuove categorie e sotto-categorie. Ma, al netto delle differenze culturali, dei costumi, delle pettinature, dell’ammontare di frattaglie presenti in scena e del fatto che la minaccia sia rappresentata da un maniaco mascherato o da un’entità ultraterrena, la sostanza non cambia.

Si prende un canovaccio da sfruttare in centinaia di diverse declinazioni possibili, lo si riempie di facce più o meno note o almeno riconoscibili per il pubblico di riferimento, e quindi stelline di derivazione televisiva, e si ripete lo schema all’infinito. In confronto, lo slasher più povero e miserabile degli anni ’80 era un’esplosione di anarchica creatività.
Per fortuna, il ciclo produttivo dell’ondata post-Scream è durato relativamente poco, anche se il riflusso non si è mai del tutto sopito. Se negli anni ’80, i vari slasher si distinguevano gli uni dagli altri per lo stile, la personalità, il grado maggiore o minore di professionalità impiegata, i loro cuginetti più giovani e rampanti brillano per anonimato e pulizia. I tempi del cinema da guerriglia amatoriale sono tramontati, lo slasher non è più territorio delle produzioni indipendenti. Ora sono gli studios a prendere in mano la situazione. Da un punto di vista meramente tecnico, questo ha rappresentato di certo un guadagno; da quello artistico, almeno fino alla fine del decennio scorso, è stata la morte dello slasher, nonché la ragione per cui il termine è associato al gradino più basso della catena alimentare horror.

Denise Richards e Marley Shelton in Valentine (2001)

Denise Richards e Marley Shelton in Valentine (2001)

Ma c’è qualcosa di salvabile o si è di fronte al completo sfacelo?
Sì, qualcosina di valido si trova, senza avere grosse pretese o aspettative, sia chiaro. Di So Cosa Hai Fatto abbiamo già discusso, mentre sappiamo che Scream e figliolanza legittima sono fuori dell’equazione. Restano soprattutto due film, firmati dal medesimo regista, Jamie Blanks, Urban Legend e Valentine. E, prima di sommergermi di pernacchie e sputazzi, fatemi spiegare il motivo per cui li considero i meno peggio della masnada.
Cominciamo col dire che Blanks, ogni tanto, aveva persino qualche idea: quella alla base di Urban Legend è era anche relativamente fresca e nuova. C’erano un paio di scene ben congegnate, come l’apertura del film, con la ragazza in macchina che si ritrova il killer sul sedile posteriore, per esempio, o anche il lungo inseguimento di Tara Reid nella stazione radiofonica. Urban Legend, con tutti i suoi limiti e facilonerie, con la recitazione sempre approssimativa (se si esclude una sorprendente Rebecca Gayheart che penso non abbia recitato mai più così bene in tutta la carriera) e il giochino delle leggende metropolitane che stanca dopo la prima mezz’ora e non viene neppure rispettato fino alla fine, ha una sua dignità, una struttura che almeno sta in piedi senza scricchiolare e due o tre momenti di crudeltà sincera e sentita.
Ma il vero colpo da maestro è il vituperatissimo Valentine, uno slasher che esaspera, volutamente e in maniera estrema e caricaturale, tutti gli stereotipi tipici del genere, e della sua diramazione anni ’90, tanto da diventare non una parodia, ma una satira su dove si era andato a impantanare il filone. Era il 2001, dopotutto, si era agli sgoccioli. Le situazioni proposte nel film, i suoi personaggi di plastica (d’altronde c’era Denise Richards), quel lusso ostentato di cui abbiamo parlato prima, l’odio che ogni singolo protagonista è in grado di suscitare nello spettatore, i colori sparati, i vestiti sgargianti, il vuoto esistenziale eretto a sistema. Tutto è troppo gridato per non essere consapevole. Guardandolo, quindici anni dopo la sua uscita in sala, ci si chiede se il regista sia un genio o un cretino. Se devo scegliere un singolo film, le decine di teen-horror arrivati in sala dal ’96 in poi, mi prendo Valentine tutta la vita. E non mi stanco mai di rivederlo. Non dico sia un bel film, perché siamo lontanissimi dal concetto di bellezza. Ma è kitsch come un cazzotto in un occhio, ed è il giusto epitaffio per una generazione intera.
La mia, che questi film li ha portati al successo, forse perché se ne sentiva rappresentata.

3 commenti

  1. il mio guilty pleasure è “Cutting Class”, uno slasher del 1989 (c’è Jill Schoelen, ma è anche l’esordio di Brad Pitt) che fa da cerniera tra la fase truce degli anni 80 e il mood post-grunge e cazzone dei ’90. Di fatto è una parodia degli horror liceali – più involontaria che altro – piena di perle nonsense e con una resa dei conti finale da applausi. Su TMC2 (pace all’anima sua) era un appuntamento fisso, tipo “Una poltrona per due” a natale su Rete4

    1. Me lo ricordo, anche se vagamente, e sempre grazie ai reiterati passaggi televisivi. Gli esordi horror insospettabili di parecchie star sarebbero da catalogare uno per uno 😀

  2. Giuseppe · ·

    No, in effetti Valentine non è esattamente un bel film, oggi come ieri, ma per fare una satira efficace contro il bersaglio (un ormai asfittico e stereotipatissimo teen-slasher) non poteva nemmeno essere realizzato in altro modo, credo. Diversamente, avrebbe rischiato di far parte a pieno titolo di quella stessa paccottiglia che intendeva sputtanare…