Cinema Atomico 4: The World, the Flesh and the Devil

The World, the Flesh and the Devil

 

Regia – Ranald MacDougall (1959)

Non tutti i film con il merito di aver fondato un immaginario rimangono impressi nella memoria collettiva. La loro eredità, raccolta da altri, resta. E i film spariscono nel nulla. Se qualcuno ha pensato che le scene in cui Will Smith parla con i manichini in Io Sono Leggenda fossero una novità, è perché non conosce (non per colpa sua) quest’opera diretta dallo sceneggiatore de Il Romanzo di Mildred.
Non la conoscevo neanche io, fino a qualche mese fa, quando mi sono messa in testa di iniziare la rassegna atomica qui sul blog, un’operazione che mi sta dando tante soddisfazioni cinefile.
MacDougall ha girato solo sei film nella sua carriera. Ed è morto giovane, ad appena 58 anni. È stato un personaggio eclettico, attivo tra televisione, radio e cinema. E ci ha lasciato una inedita visione dell’apocalisse atomica, narrata attraverso la prospettiva di soli tre sopravvissuti alla catastrofe, che si aggirano per una New York deserta, cercando di venire a capo non solo dell’estinzione della razza umana, ma anche di alcune questioni che la civiltà ha lasciato in sospeso. Come quella razziale. O quella femminile.
The World, the Flesh and the Devil esce lo stesso anno de L’Ultima Spiaggia. In un certo senso, i due film hanno dei tratti in comune. E l’ambizione di mettere l’uomo di fronte alla sua scomparsa dalla faccia della terra. Ma, mentre la pellicola di Kramer non lasciava alcuna possibilità alla nostra specie, sterminata nel giro di pochi mesi, MacDougall concede un barlume di speranza, mettendo nelle mani dei protagonisti la scelta tra l’annientamento totale o un ipotetico nuovo inizio.

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La sceneggiatura di MacDougall è vagamente ispirata a La Nube Purpurea di M.P. Shiel, ma ne rielabora del tutto il contesto, adattandolo all’era della bomba atomica: Ralph (Harry Belafonte) resta bloccato nella miniera dove lavora a causa di un crollo. Non ha comunicazioni con l’esterno per cinque giorni e, quando finalmente riesce a uscire, non trova più nessuno. Ricostruisce gli avvenimenti grazie a qualche foglio di giornale raccolto per strada e capisce che è scoppiata la guerra atomica e che gran parte dell’umanità è stata sterminata. Si dirige quindi a New York, sperando che in una grande città siano rimasti alcuni sopravvissuti. Ma anche lì, sembra non essere rimasta anima viva. Dopo qualche giorno però compare una donna, Sarah (Inger Stevens, bella, malinconica, bravissima) e i due iniziano una relazione molto complicata. Non una storia d’amore, o non solo, ma un percorso di reciproche conoscenza e accettazione, in cui si devono confrontare con delle convenzioni sociali difficili da abbattere e ancora capaci di ferire e ostacolare i rapporti umani, persino alla fine del mondo.
L’arrivo di un terzo superstite (Mel Ferrer) farà precipitare la situazione.

È giusto lodare George Romero per il coraggio dimostrato nell’aver dato il ruolo di protagonista assoluto a un attore di colore nel suo film d’esordio.
Solo che MacDougall si era spinto forse ancora oltre. E lo aveva fatto circa un decennio prima. Non solo Belafonte tiene la scena da solo per tutta la prima parte del film. Ma, nel 1959, il suo personaggio instaura con una ragazza bianca un rapporto ambiguo che non diventa amore solo per la persistenza di una serie di sovrastrutture che impediscono ai due di lasciarsi andare. Per ovvi motivi, non vediamo mai Belafonte e la Stevens darsi un bacio o anche soltanto sfiorarsi. Eppure la tensione erotica tra loro è evidente sin dal primo incontro. E diventa fortissima in una delle scene più belle del film, quella in cui Sarah chiede a Ralph di tagliarle i capelli.
Quando entra in scena Ferrer e Ralph si sente obbligato a farsi da parte, esplode anche un’altra questione, quella della libertà di scelta delle donne. I due maschi, infatti, iniziano a contendersi Sarah come se non spettasse a lei decidere, e arrivano addirittura a rischiare di ammazzarsi l’un l’altro. Considerando che l’umanità è ridotta a tre soli esemplari, non è una scelta proprio lungimirante.
Tutto questo per darvi un’idea di come e quanto The World, the Flesh and the Devil (uscito in Italia col più prosaico titolo de La Fine del Mondo) fosse estremamente avanti rispetto ai suoi tempi. E di che audacia ci volesse per affrontare problematiche così spinose in un’opera già di per sé problematica, dichiaratamente pacifista, con attacchi mirati alle istituzioni tradizionali, e che faceva del rifiuto di ogni forma di violenza la sua bandiera. Viene quasi da chiedersi come abbia fatto a passare la censura.

Inger-stevens

Ma parlavamo prima della fondazione di un immaginario. Quando pensiamo alla devastazione post atomica, i primi fotogrammi che ci vengono in mente sono quelli bruciati dal sole del deserto della trilogia di Mad Max. Perché i film di Miller hanno, di fatto, creato uno scenario (sì, c’è A boy and his dog che lo precede di qualche anno, ma non ha avuto lo stesso impatto) destinato a diventare il punto di riferimento per il cinema apocalittico.
Ma non è l’unico scenario possibile.
Le città private dei loro abitanti, riprese in campi lunghi che ne evidenziano la desolazione. Le strade con macchine vuote, bloccate in un eterno ingorgo di cadaveri. Immense metropoli il cui aspetto rimane sostanzialmente invariato, tranne che per un piccolo particolare: non vi è traccia di presenza umana.
Se certi panorami li avevamo intravisti in Five, si trattava comunque di una piccola città di provincia americana. Se Londra era stata evacuata in Seven Days to Noon, restava però in attesa del ritorno della sua gente, una volta sventata la minaccia della bomba.
New York, in questo film, è davvero priva di vita. Mancano anche gli animali. E Ralph, quando, da solo, arriva in città, è costretto a parlare con dei manichini per non impazzire.
Le scene che rappresentavano New York deserta furono tutte girate all’alba, onde evitare che si dovesse bloccare il passaggio di troppe persone. Ecco spiegata la luce così particolare che conferisce al bianco e nero di The World, the Flesh and the Devil un aspetto quasi da sogno.
L’asfalto con una patina umida che brilla al sole appena sorto, le cartacce e i rifiuti come unici ricordi dei tempi in cui quelle vie brulicavano di gente. E Ralph che si ostina a gettare l’immondizia in un bidone della spazzatura che nessuno svuoterà mai.
Sono tutte immagini che adesso ci sembrano consuete, ma che nascevano e si imprimevano nella testa degli spettatori proprio in quegli anni, e proprio grazie a questo piccolo gioiello.

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La differenza sostanziale tra il tipo di cinema alla Mad Max e quello con un approccio più intimista e umano, è che il primo racconta sempre un degrado compiuto e irreversibile. Non è un caso se (e lo vedremo poi, quando usciremo dagli anni ’50 e ’60 e ci inoltreremo nei decenni successivi) in seguito, anche i film improntati a uno sguardo minimale sulla fine del mondo, mutuarono da Miller il senso di sconfitta e di crollo definitivo del vivere civile, un tipo di disillusione figlia e specchio dei tempi. Ma nel ’59, sebbene ci fossero già indizi di questa disillusione e siano reperibili anche in questo film, l’idea principale nel mettere in scena la fine dell’umanità era quella di preservarne alcune caratteristiche, forse perché mancava la componente fondamentale del cinismo, o forse perché quelle caratteristiche erano considerate come un simbolo di ciò che poteva salvarci dalla distruzione totale incombente dallo schermo. Non ho una spiegazione precisa a riguardo.
Però MacDougall porta i suoi personaggi sull’orlo della “quarta guerra mondiale”, come viene definito lo scontro tra i due uomini rimasti, combattuta per contendersi l’unica “risorsa” ormai disponibile, una donna che dovrebbe in futuro garantire la prosecuzione della specie.
E il finale, che non voglio in alcun modo rivelare, visto ai giorni nostri, è sorprendente. Di una bellezza e, scusate se mi ripeto, di un’audacia e di una forza impressionanti. Risolto in pochi minuti e in un paio di inquadrature montate alla grande, potrebbe far impallidire o infuriare in un colpo solo tutti i guerrafondai, i razzisti e i difensori della famiglia tradizionale di questo mondo.
E magari, farli anche vergognare un po’ di loro stessi.

13 commenti

  1. dinogargano · ·

    Visto anni fa in un cineforum , eravamo Moretti , io e Kusturica , che però ha dormito per tutta la proiezione …
    Scherzi ha parte l’ho visto sul serio , senza Moretti ed Emir , e mi era piaciuto molto , ma io ho un debole per i film in bianco e nero , hanno un fascino inimitabile e ti permettono di fantasticare sui colori reali .
    bel post , al solito …. brava .

    1. Ahahahahahahahah!
      Emir che si addormenta durante la proiezione è un’immagine meravigliosa.
      E ce l’ho anche io un debole per il bianco e nero. Poi in questo film le luci sono così strane e si sposano così bene con il bianco e nero che sembra davvero di vivere in un’altra dimensione.
      Bellissimo.

  2. Questo titolo mi manca, ne avevo sentito parlare ma non l’ho mai visto, segno, e poi al massimo ripasso a leggere tutto. Mi fido ciecamente dei titoli che proponi 😉 Cheers!

    1. Non è facilissimo da reperire, ma ti assicuro che merita: ti rendi conto della quantità immensa di film che ne hanno preso spunto. E ti chiedi per quale cazzo di motivo te lo hanno tenuto nascosto tutto questo tempo

  3. Segno, as usual.
    Ma Harry Belafonte è quello di Shake, shake, shake signora? 😀 Se è lui, gli voglio ancora più bene e DEVO recuperare questo film!

    1. Esattamente lui! Momenti epici, quelli 😀

  4. […] specie umana erano nefasti. Lucia sta affrontando medesimo tema in queste settimana sul suo blog: il cinema atomico, analizzando proprio uno di questi sottogeneri. Noi bazzicheremo nel B-Movie, coi mostri e gli […]

  5. Denis · ·

    Di Io sono leggenda ho anche il libro(meglio del film),ho anche videogioco per wii* con lo stesso spunto,un ragazzino di 15 anni si ritrova a girare in una Tokyo senza più gente,rimangono solo i fantasmi.
    Di recente ho visto The Divide (veramente un gioeillino,dramma da camera portato alla stremo).
    Non c’entra ma ho letto su un blog dell’ammutimento del Batavia (una storia vera,con risvolti horror).penso che possa interessarti perchè cìè il mare di mezzo.
    Un saluto Lucia.
    P.s *il gioco si chiama Fragile Dreams e non ha venduto una beata mazza.

  6. Credo che il paesaggio desolato, nel quale il solo sopravvissuto si muove sull’orlo della follia, con la sola compagnia di un cane e dei manichini e degli artefatti dell’epoca ormai finita trovi la sua origine in “Earth Abides”, un romanzo di fantascienza post-apocalittica del 1949, scritto da George R. Stewart.
    In questo caso, la causa della catastrofe è un virus.
    A parte il paesaggio e il binomo uomo-cane (ripreso da tutti, da Harlan Ellison a James Herbert passando per Mad Max) Earth Abides è interessante perché, riunitosi con una comunità di sopravvissuti, Ish, il protagonista, avvia una relazione con Em, che è di origine afroamericana – idea improponibile nel ’49, che passò probabilmente proprio solo perché era fantascienza.
    Così, tanto per andare fuori tema 😉

    1. Sicuramente la narrativa arriva prima: arriva sempre prima del cinema dappertutto, tranne rarissime eccezioni. Però, credo che questo film sia stato davvero il primo a tradurre in immagini uno scenario simile.

  7. visto qualche tempo fa.
    Bel film davvero.

  8. Giuseppe · ·

    Ottima recensione per quest’altra perla post-apocalittica d’epoca, con il suo terzetto di indimenticabili protagonisti… Quando Burton/Belafonte arriva a New York, riesce a trasmetterci fino in fondo il peso della solitudine e dell’assenza di vita che lo circonda. Altrettanto bene riusciamo a cogliere le sfaccettate difficoltà del suo rapporto con Sarah Crandall (una Stevens tanto brava quanto sfortunata 😦 ), senza dimenticare da buon ultimo – ma non meno importante per questo – il rivale rappresentato dal Benson Thacker di Ferrer.
    Quanto al magistrale finale, hai colto esattamente nel segno: decisamente sputtanante – come è giusto che sia – ancora oggi, per le categorie di idioti, coglioni e bigotti che hai elencato in chiusura di post…

    1. L’arrivo a New York è uno dei momenti cinematografici più copiati di sempre, credo. E anche la passeggiata col carrello coi viveri, nella città deserta, è stata riproposta tante volte. Chissà perché questo film non è così conosciuto come meriterebbe