In The Flesh – Seconda Stagione

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“And if you must die sweetheart
Die knowing your life was my life’s best part
If you must die
Remember your life”

Settimana decisamente televisiva da queste parti. Due serie in pochi giorni. Tra le migliori in ambito horror. E qualcuno potrebbe obiettare (anche giustamente) che In the Flesh non sia una serie dell’orrore. Non del tutto, almeno. Parla sì di zombie, ma lo fa da una prospettiva inedita e molto originale. Lo dicevamo anche a proposito della prima stagione, l’anno scorso: In the Flesh è forse, in tema di morti viventi, il prodotto che porta maggiori novità, non occupandosi del momento in cui i cadaveri risorgono dalle tombe e se ne vanno in giro a sbocconcellare i vivi, ma di una fase successiva, quella in cui gli zombie, una volta curati, devono essere reinseriti in una società che non li vuole più, che contro di loro ha lottato e ha vinto e che ora li teme e li tratta come reietti.

La prima stagione era composta da sole tre puntate e poteva anche considerarsi autoconclusiva, sebbene lasciasse alcune linee narrative aperte, come quella relativa al “profeta” e ai suoi adepti, o come la faccenda della strana droga capace di far tornare mostri rabbiosi i morti viventi curati.
Eppure, nonostante qualche domanda in sospeso, una seconda serie di episodi non era necessaria. In The Flesh era un’opera compiuta, perfetta nella sua brevità, coerente e compatta.
Il successo di pubblico e critica ha portato però inevitabilmente a mettere in cantiere un nuovo ciclo di puntate. Non più tre, ma sei. E, se al timone delle sceneggiature è rimasto Dominic Mitchell, (più un paio di altri autori) dietro la macchina da presa Jonny Campbell è stato sostituito da tre registi differenti.
Mi sono avvicinata con grossi pregiudizi alla seconda stagione di In the Flesh, devo ammetterlo. In realtà, non volevo che accadesse, perché quelle tre puntate viste una dietro l’altra nello spazio di un pomeriggio, mi avevano tramortita e l’idea di assistere alla rovina di In the Flesh era uno spauracchio difficile da ignorare.

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Il progetto della BBC Drama Productions è chiarissimo: In the Flesh comincia davvero con questa seconda stagione. I primi tre episodi erano una sorta di lungo tv movie, ma la serializzazione vera e propria è partita qui. E infatti In the Flesh diventa subito un prodotto più standard, meno forte, sia emotivamente che stilisticamente, di sicuro più appetibile e destinato a un pubblico più eterogeneo, il tutto riuscendo comunque a rimanere un’ottima serie, grazie soprattutto ai personaggi (vecchi e nuovi) e alla ferrea volontà di proseguire a usare lo zombie guarito come metafora dell’emarginazione sociale. E anzi, gli autori si sono spinti oltre e hanno messo in primo piano la politica, elemento appena accennato nella stagione precedente, che qui diventa preponderante.

Avevamo lasciato Kieren (Luke Newberry) a Roarton, a combattere con la diffidenza e l’odio dei suoi compaesani. Lo ritroviamo in procinto di andarsene in Francia, mentre la sua amica Amy (Emily Bevan) ritorna in città  portandosi dietro uno dei discepoli del profeta zombi, Simon (Emmet J Scanlan), che inizia a predicare agli altri morti, raccogliendo adepti tra i sempre più bistrattati malati di PDS (Partial Deceased Syndrome).
Nel frattempo, l’organizzazione terroristica Undead Liberation Army inizia a mietere vittime, attaccando e uccidendo vivi.
È proprio con un assalto a un autobus da parte dei terroristi zombie che comincia la seconda stagione, impostando da subito l’atmosfera della serie: più ritmo, più violenza e una evidente politicizzazione del prodotto. L’arrivo a Roarton della parlamentare Maxine poi toglie qualsiasi dubbio. Se avete familiarità (e purtroppo temo che l’abbiamo tutti) con quei partiti xenofobi, ultranazionalisti, cristiani di facciata e comodo e sempre pronti a trovare un bersaglio per far scatenare la frustrazione e la rabbia popolari, eccovi servito il ritratto di Maxine.
Il suo bersaglio sono gli zombie (ma attenzione, In the Flesh è una serie diversa dalle altre, e anche Maxine riserverà qualche sorpresa), a cui il governo britannico sta, lentamente e in silenzio, togliendo un diritto dietro l’altro. Vengono infatti obbligati a lavorare gratis per “restituire ciò che hanno tolto alla comunità” e gli viene impedito di viaggiare fino a quando non avranno completato il programma di lavoro. Meccanismi burocratici infernali e bizantini per ottenere semplici documenti, false accuse di aggressione, minacce, botte. Ma tutto servito col sorriso sulle labbra e l’ipocrisia conclamata della correttezza politica, con tanto di filmati propagandistici che cercano di convincere gli zombie di  quanto sia giusta questa progressiva perdita di diritti, di come sia necessario essere sempre “collaborativi” e quindi accettare ogni sopruso e angheria. Non per i vivi, ma per loro stessi. Per diventare come i vivi.
E se, al contrario, gli zombie volessero mantenere una propria identità culturale? Togliersi le lenti a contatto, non portare fondotinta, non simulare ciò che non possono più essere?

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Insomma, se queste tematiche erano già tutte presenti in quei tre primi, splendidi episodi, in questa seconda stagione gli autori le portano alla luce del sole, rendendole il più possibile chiare e semplici. Usando meno simboli e meno sottotesti, parlando meno di sentimenti e rapporti umani e concentrandosi sui giochi di potere e sul conflitto tra una cultura dominante che si vede accerchiata e una cultura emergente e nuova, i cui esponenti hanno la certezza di rappresentare il futuro dell’umanità.
Un filino didascalico, forse. Ma In the Flesh evita accuratamente le trappole dello schematismo e riesce a tratteggiare ogni singolo personaggio (sì, in fin dei conti persino Maxine, esposta al rischio di macchietta più degli altri) con sufficienti tratti di ambiguità e con uno spessore che li distanzia molto dalla sterile divisione in buoni e cattivi.
E sono proprio i personaggi (come dicevamo all’inizio), le loro interazioni mai banali, i diversi modi di intendere l’amore, l’amicizia, l’attività politica e tutto ciò che concerne il rapporto con l’altro, un altro che ci vuole un istante a identificare come nemico. Ma ci vuole sempre lo stesso istante per innamorarsene, per comprendere di avere di fronte un nostro simile, anche quando in lui vediamo solo una minaccia.
E ci vuole un istante a spostarsi dal lato dei carnefici a quello delle vittime. Da chi vive convinto di avere sempre ragione a chi è condannato ad avere sempre torto.
Su questo delicato equilibrio si muove tutta la seconda stagione di In the Flesh. Una stagione sicuramente più corale della prima, e dove lo stesso Kieren non emerge più di tanto, dove i due elementi chiave sono due caratteri “secondari” come Amy (ma che fosse lei la marcia in più di In the Flesh era evidente anche nei primi tre episodi) e Philip (Stephen Thompson), il giovane consigliere municipale che insegnerà a tutta Roarton cosa sia la dignità. Rimanendo ovviamente inascoltato.

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Nonostante l’intensità emotiva dei primi tre episodi sia inarrivabile, nonostante sei puntate siano forse troppe e ci siano un po’ troppi riempitivi che impediscono di arrivare subito al nucleo centrale della storia, nonostante qualche didascalia di troppo, questa seconda stagione di In the Flesh si mantiene si livelli molto alti. Ormai non serve più neanche complimentarsi con un cast di attori formidabili (la superiore razza britannica), con la confezione ancora più curata (budget più alto) rispetto alla prima stagione e con una regia che riesce a essere omogenea anche se affidata a più persone.
Non mancano i momenti strazianti (alla fine dell’ultima puntata non riuscivo a smettere di piangere), ma sono più diluiti e quindi hanno un impatto meno violento, perché sommersi quasi subito da una considerevole mole di avvenimenti, come è tipico delle serie tv. Ecco, forse con questa seconda stagione, In the Flesh ha smarrito la sua natura più cinematografica che televisiva. Ma è il prezzo da pagare se si vuole andare avanti per parecchie stagioni. E la terza arriverà sicuramente, dato il finale con cliffhanger grosso quanto una portaerei.
Vi lascio con un pezzo della colonna sonora, firmata sempre da Keaton Henson e così bella che non ci si crede.
Se volete approfondire, della seconda stagione ne ha parlato anche Nick in questo post.

EDIT dell’ora di pranzo: apprendo con sconforto da uno dei miei commentatori che la terza stagione non si farà.
Tuttavia, si può firmare questa petizione per chiedere alla BBC di concludere (almeno) il programma. Il più delle volte queste iniziative lasciano il tempo che trovano. Ma tentare non nuoce.
Grazie a Simmons Cottage  per la segnalazione.

12 commenti

  1. interessante, grazie
    OT: è ricominciato anche Black Sails ❤

    1. Eh sí! Epico Black Sails!

  2. Fabrizio · ·

    Ho visto la prima serie e ne ero rimasto particolarmente colpito. Davvero una ventata di freschezza nelle storie sui morti viventi. Questa seconda serie ancora non l’ho guardata, purtroppo però pochi giorni fa la BBC Three ha dichiarato che non ci sarà una terza stagione.
    Questo il comunicato come riportato da Movieplayer.it
    “BBC Three è molto orgogliosa della serie, premiata due volte, In The Flesh. Tuttavia, considerando che c’è solo il budget per una serie drammatica originale all’anno sul canale, non ritornerà. Abbiamo amato lo show ma dobbiamo prendere scelte dure per dare spazio a nuove serie e creare l’opportunità di far emergere il talento. Un enorme ringraziamento va allo sceneggiatore, vincitore di un premio BAFTA, Dominic Mitchell, e al cast superbo”.
    Davvero un gran peccato.

    1. No…
      La storia così rimarrà troncata a metà… È una tragedia!

  3. si trova in DVD? si sa se qualcuno si prende la briga di trasmetterlo in Italia?

    1. Sì, in dvd ci sono già entrambi le stagioni. Però ovviamente solo in inglese. In Italia la serie è inedita e non penso che la vedremo mai. Ma forse non è neanche un cosa così negativa: ci risparmiamo il doppiaggio 😀

  4. Innanzitutto, grazie per aver linkato il mio post, naturalmente ricambio subito, dopotutto il tuo splendido articolo lo merita. Poi dico che condivido quasi tutto quello che hai scritto, in particolare il personaggio di Philip, la sua evoluzione e la sua (ri)trovata dignità è splendido.
    Adesso vado a firmare la petizione, per la terza stagione.

    1. Ci mancherebbe!
      Speriamo davvero che la petizione serva a qualcosa. Anche se devo ammettere che ne dubito. Se la BBC ha già deciso di investire in altri progetti, purtroppo ci sarà poco da fare 😦

  5. Giuseppe · ·

    Insomma, In the Flesh non ha corso il rischio di trasformarsi in The walking dead! 😉 Scherzi a parte, non ce n’erano proprio le premesse, ragion per cui difficilmente si sarebbe potuto sputtanare il tutto con una seconda stagione… e, infatti, mi confermi che non è successo. Peccato che non abbiano intenzione di procedere oltre (e non so quanto la mia firma, che andrà a aggiungersi a tutte le altre, potrà contribuire a spostare l’ago della bilancia a nostro favore) 😦
    P.S. Veste grafica del sito nuova di zecca, vedo!

    1. Eh s’, ho dato una riverniciatina alle pareti di casa e spostato qualche mobile 😀

  6. Ce l’ho qui da tipo… un anno? Mi occorreva un input per decidermi a guardarla, forse per via dei tuoi stessi timori iniziali legati alla buona riuscita della prima stagione. E anche perché nessuno di quelli che conosco ne aveva parlato, né bene, né male. Quindi niente, mi butto pure io.