What Keeps You Alive

 Regia – Colin Minihan (2018)

POSSIBILI SPOILER

Ho sempre voluto parlare del modo in cui l’horror mette in scena personaggi omosessuali; poi, per un motivo o per un altro, non l’ho mai fatto. Credo soprattutto perché si tratta di un tema che mi tocca da vicino e non sono certa di avere la giusta serenità di giudizio. Come per quanto riguarda il post horror, sembra che tutti si stiano accorgendo ora del fatto che, nel cinema dell’orrore, non è mai stata poi questo grande tabù; logicamente, nell’anno di grazia 2018, trovare personaggi apertamente gay, trattati con assoluta normalità è diventato frequente in ogni settore del cinema e le macchiette temo rimangano solo nella fiction italiana.
E tuttavia, anche in questo, l’horror ha sempre giocato d’anticipo sui tempi, forse perché era talmente bistrattato di suo, che un personaggio gay in più o in meno non faceva la differenza. Tematiche omosessuali sono presenti nel genere sin dagli anni ’30, grazie a (ma tu guarda un po’) James Whale e a i suoi The Old Dark House e, soprattutto, La Moglie di Frankenstein. Per non parlare poi di Val Lewton e dei suoi personaggi femminili, sempre contraddistinti da un’attrazione neanche troppo sottaciuta nei confronti del proprio stesso sesso. E non fatemi cominciare a sproloquiare su The Haunting, perché non la finisco più.
Il grande vantaggio dell’horror sugli altri generi è che non è obbligato a dare per forza una connotazione morale ai suoi personaggi, dato che per sua stessa natura sguazza nell’immoralità.
Travestitismo, crisi d’identità, confusione sessuale, sono sempre stati presenti nell’horror dagli albori e quindi, ricorrendo a scuse come devianze mentali di ogni tipo, entità soprannaturali dagli appetiti quantomeno singolari, vampire ambigue e chi più ne ha più ne metta, poteva aggirare i costumi e la mentalità correnti per parlare di omosessualità quando gli altri si limitavano a far finta che non esistesse.

Tutto questo per dire che non è necessario salutare una coppia di lesbiche protagoniste di un horror come chissà quale novità. La novità sta piuttosto nel fatto che l’omosessualità è, in questo caso, del tutto accidentale e accessoria alla trama, nel senso che potrebbe benissimo trattarsi di un uomo e una donna e nulla cambierebbe ai fini della trama. E questo, se permettete, è davvero un passo avanti, perché in What Keeps You Alive il problema non è l’omosessualità dei due personaggi principali, data per scontata sin dai primi secondi, ma la fiducia che di solito riponiamo nella persona che amiamo, sia essa del nostro stesso sesso o no.
Jules (la sempre più brava Brittany Allen) e Jackie (Hannah Emily Anderson) vanno a festeggiare il loro primo anniversario di matrimonio nel cottage in mezzo ai boschi di Jackie, che lì ha passato l’infanzia. Il loro pare un vero e proprio idillio, fino a quando qualcosa comincia a scricchiolare: alla porta si presenta infatti una vecchia amica di Jackie, che però insiste a chiamarla Megan, e accenna a un episodio abbastanza sinistro del suo passato. Durante una passeggiata lungo il lago, Jackie spinge Jules giù da una scogliera. Jules sopravvive e comincia il suo incubo.

Già perché Jackie o Megan è una pazza psicopatica assetata di sangue, che ha condotto lì sua moglie apposta per ucciderla e intascare così i soldi dell’assicurazione. What Keeps You Alive racconta di come si possa passare dall’amore al terrore in un lampo, di come ogni nostra sicurezza affettiva finisca con lo sgretolarsi senza neanche darci il tempo di rendercene conto, di quanto poco conosciamo veramente chi ci sta accanto. Insomma, io sono di natura abbastanza paranoica, ma dopo aver visto questo film, credo resterò single a vita.
Di horror in quanto tale, va detto, What Keeps You Alive ha davvero poco; è certamente generoso in sangue e mutilazioni e c’è un omicidio a coltellate, a un certo punto, che brilla per la sua selvaggia brutalità. Ma, se proprio va cercata una categoria specifica per questo film, lo si può inserire in qualche scaffale dalle parti di Patricia Highsmit. E so che con questa ho la vostra attenzione.

La carriera di Minihan è stata parecchio strana: partito malissimo, ha poi imbroccato un film eccellente, sempre in compagnia della sua attrice fissa Allen, in quel It Stains the Sands Red, che dava una prospettiva un po’ diversa dal solito sulla consueta pappa a base di apocalisse zombie. Ora torna con questo strano ibrido che deve gran parte della sua riuscita a due protagoniste affiatate e tremendamente in gamba e a una resa estetica molto particolare, sconfinante a tratti nella video arte. La struttura, lo abbiamo detto, è quella classica del thriller sulla falsa identità. Il che è motivo di interesse, se si pensa a quanto spesso l’omosessualità venga associata alla ricerca della propria identità. Il punto è che Jackie non ne possiede una, lei cambia a seconda delle donne che sposa e poi uccide, ma quella sessuale è ben chiara e mai messa in discussione, sia per la spietata assassina che per la sua vittima.
Jackie (o Megan) è lesbica e sociopatica, ma non è una sociopatica che si finge lesbica; potrebbe essere una delle tante femme fatale della storia del noir, anzi, senza potrebbe: lo è, perché seduce, inganna, sfrutta i sentimenti altrui (lei non ne prova) per suo piacere personale. Con la differenza che gli oggetti, in questo caso, sono sempre altre donne.

Il film assume così una valenza dirompente: non c’è un complice maschile con cui spartirsi il bottino, non c’è alcun ritorno nei binari rassicuranti della cosiddetta norma. La “debolezza”, se così vogliamo chiamarla, della povera Jules non è rappresentata dalla sua omosessualità, ma dai suoi sentimenti, che in questo modo non possiedono alcun carattere di eccezionalità, sono banali e ovvi.
Una volta appurato questo, Minihan si può scatenare con la violenza, la caccia all’uomo nei boschi, il ribaltamento di ruoli carnefice/vittima; ha a disposizione un luogo isolato (in Canada) dove le due donne possono passare dall’essere tenere mogliettine a darsele di santa ragione, lottando per la rispettiva sopravvivenza. Perché, lo sappiamo, solo una delle due uscirà viva da questa situazione.

Comincia come il classico survival campestre, e poi ti mostra che la minaccia non è esterna alla coppia, ma all’interno di essa: tutto ciò che Jules ha costruito, tutto ciò che ha sperato, tutto ciò in cui ha creduto si rivela falso, un’invenzione, una messa in scena e quella persona che, fino a poche ore fa, diceva di amarti e di voler passare il resto della sua vita con te, ora sta solo cercando di cancellarti dalla faccia della terra.
C’è da avere gli incubi per settimane, solo soffermandosi a rifletterci cinque minuti.
È la normalità di questa coppia a fare in modo che, una volta scoperto il gioco di una delle due, il film proceda così spedito e con tale forza; perché What Keeps You Alive è un gran bel rullo compressore, pur senza mai abbandonarsi all’isteria e alla frammentazione del solito montaggio epilettico, ha un ritmo interno che esercita una sorta di ipnosi sullo spettatore, ed è così coerente che alla fine passano inosservate anche quelle due o tre forzature pur presenti. Gliele perdoni, gli perdoni tutto per quanto è ben raccontato.
So di essere di parte e poco lucida (i motivi li ho spiegati a inizio post), ma credo di aver appena trovato il “mio” horror dell’anno.
E pensare che io al regista di Extraterrestrial non avrei dato una lira neanche costretta con le spalle al muro.

3 commenti

  1. Cristian Maritano · ·

    Tra tutti quelli che ho visto, sicuramente per l’argomento trattato (esclusa la chiave horror) per me se la giocano Il pasto nudo di Cronenberg e Cruising di William Friedkin. Tra le menzioni memorabili di sicuro ci sono anche altri film come Philadelphia di Demme o Milk di Van Sant e così via

  2. Giuseppe · ·

    Da quello che scrivi -ho voluto leggere fino in fondo, nonostante i possibili spoiler 😉 -si può ben dire che Minihan stia continuando a farli, dei passi avanti (almeno da un paio d’anni a questa parte… anche se devo ammettere che il primo Grave Encounters l’avevo trovato perlomeno curioso).

    1. Hai ragione, il primo Grave Encounters non era malissimo, però non avrei mai creduto che sarebbe arrivato a questi livelli di profondità d’analisi.
      Una vera sorpresa-