The Killing of a Sacred Deer

 Regia – Yorgos Lanthimos (2017)

Chiunque sia un minimo familiare con il lavoro del regista greco sa che la sua opinione della natura umana non è proprio elevata e che i suoi film non sono la cosa più facile del mondo da inquadrare: si tratta di opere d’autore raffinatissime e ostiche per lo spettatore mascherate in maniera mirabile da film di genere. Kynodontas è stato definito un horror, ma non è che lo si potesse inserire a cuor leggero all’interno dei meccanismi tipici del genere, mentre il suo primo film fuori dalla Grecia, The Lobster, giocava con la fantascienza distopica mente faceva satira sul concetto di coppia e sull’amore in generale. Ora, con The Killing of a Sacred Deer, siamo di nuovo in campo horror, soprannaturale per di più, con una maledizione che grava su una famiglia alto-borghese e la fa a brandelli, come in una delle tante storie demoniache che costellano il cinema horror americano.
Ma di Lanthimos stiamo parlando, ed è logico che non sia tutto qui e che l’uso del soprannaturale sia una specie di grimaldello con cui forzare le sicurezze dello spettatore e lasciarlo a meditare su cosa ha appena visto, e su cosa gli è precipitato addosso, per giorni e giorni dopo la visione.

Quello di Lanthimos non è il mio cinema. Lo guardo di solito ammirata, ma anche distaccata, non riesce mai a toccarmi nel profondo, per tutta una serie di miei limiti e motivi che non sto qui a elencare. Diciamo solo che il suo approccio gelido all’umanità non fa proprio parte di me, ma ogni tanto è salutare andare a lezione da lui. Dovrei dire salutare, ma doloroso, e tuttavia non sarebbe esatto. Io i film di Lanthimos mi limito a contemplarli e non suscitano in me alcuna reazione emotiva. Credo sia voluto, da parte sua. Ne esco, di solito, un po’ sbigottita e con il cervello che mi va a fuoco. E sono tutte cose positive, figuriamoci se io mi permetto di criticare Lanthimos, che è uno degli autori più importanti della nostra epoca. Sto solo cercando di spiegarvi perché, nell’analizzare The Killing of a Sacred Deer, potrò sembrare meno entusiasta di altri.

Steven Murphy (Colin Farrel) è uno stimato chirurgo con una famiglia bellissima: sua moglie Anna (Nicol Kidman) è un’oftalmologa e i suoi due figli, Bob e Kim, sono due ragazzi brillanti e pieni di talento. Non è da disprezzare il fatto che siano anche ricchi da fare schifo. In questa apparente perfezione si inserisce il giovane Martin (Barry Keoghan, che vi dovreste ricordare in Dunkirk), un ragazzo con degli evidenti problemi di carattere psicologico che ha una strana relazione, all’inizio non spiegata (e mai del tutto chiarita), con il dottor Murphy. Si viene poi a sapere che il padre di Martin è morto durante un intervento eseguito dal medico e che il ragazzo ha scagliato una maledizione su colui che ritiene essere un assassino: i figli e la moglie di Murphy si ammaleranno, prima perderanno l’uso degli arti inferiori, poi smetteranno di mangiare, cominceranno a sanguinare dagli occhi e alla fine moriranno, a meno che Murphy non ne uccida uno a sua scelta. Allora tutto tornerà normale.

In ogni film di Lanthimos si parte da una situazione assurda sostenuta dai personaggi con atteggiamento impassibile, e The Killig of a Sacred Deer non fa eccezione: il regista ci mette di fronte a una serie di fatti compiuti per cui non esiste alcuna spiegazione e a cui non vi è neanche una possibilità di opporsi. Solo che in questo caso c’è un conflitto abbastanza netto tra la mentalità scientifica del dottor Murphy e il baratro di irrazionalità dove lui e la sua famiglia sprofondano.
In una delle scene più inquietanti del film, Martin si morde un braccio fino a farlo sanguinare e poi dice al dottore: “È metaforico”. Non esiste sorgente più feconda per le metafore che il mito e la chiave di lettura del film sembra fornircela Lanthimos in persona, quando un professore di Kim accenna a Murphy che sua figlia sta lavorando a una tesina su Ifigenia. In realtà, il riferimento è evidente sin dal titolo, quell’uccisione di una cerva che si rivelò un’offesa imperdonabile per Artemide e che ebbe come conseguenza immediata il sacrificio di Ifigenia per mano del padre Agamennone.

Più che la dicotomia tra scienza e soprannaturale, più che il pessimismo sull’essere umano e sul suo istinto di sopravvivenza, e le riflessioni che ne discendono sulla fragilità degli affetti e dei pilastri della nostra vita (la famiglia per prima cosa), tutti elementi ben presenti in ogni opera di Lanthimos, è questo collegamento alla mitologia che trovo davvero interessante, proprio a causa del potere enorme che il mito riveste ancora, persino in contesti asettici e in ambienti dove non dovrebbe avere alcun diritto di cittadinanza. E invece basta un dettaglio fuori posto (Martin, il giovane dio infuriato) e tutta la crudeltà ancestrale che è propria del mito si scatena e non c’è salvezza per nessuno, anche per chi sopravvive, soprattutto per chi sopravvive.
Se ci pensate, è un concetto puramente horror, è forse l’unica caratteristica del film che potrebbe ascriverlo sul serio al genere, ed è paradossale che sia poi il suo lato più ricercato e colto.

E già che si parla di mito e di potere, Lanthimos ha capito alla perfezione il significato della parola mito: una storia, appunto, potente e senza tempo. The Killing of a Sacred Deer, con la sua morale ferocissima e la capacità di andare a scoprire nervi che colpiscono qualunque essere umano dotato di un minimo di raziocinio, ma anche con la sua semplicità, il suo essere un apologo lineare e implacabile, quasi privo di sofisticazioni se non a livello di stile e messa in scena, è una fiaba che non ha tempo e potrebbe essere ambientata ovunque. È universale come solo il mito sa essere, basata su un rapporto spietato di causa ed effetto, su un concetto di colpa assoluto, con cui non puoi venire a patti, che devi solo affrontare, caricandoti le spalle di tutte le sue atroci conseguenze.

Ma nel mondo di Lanthimos non esistono innocenti e soprattutto non esiste alcuna forma di empatia nei confronti dei personaggi. Quindi una storia così tragica (nel senso classico del termine) è raccontata senza pathos, senza neanche il più piccolo tentativo di farci vivere il dramma dei protagonisti in prima persona. Ci limitiamo a osservarlo dall’esterno, come se stessimo guardando il misteriosi affannarsi per sopravvivere di un nugolo di insetti. E non è un bel vedere.
Oramai Lanthimos è arrivato a un punto tale nella sua carriera da permettersi di scritturare grandi divi e spogliarli del tutto dal loro status, obbligandoli a vestire panni scomodi e sgradevoli e facendoli recitare come delle statue di cera.
Su una regia che è semplicemente perfetta non mi sento di dire nulla se non guardate e imparate. Continua a non essere il mio cinema, quello di Lanthimos, ma autori così sono un dono inestimabile e a loro si deve un completo e ossequioso rispetto.

15 commenti

  1. Blissard · ·

    Splendida recensione, complimenti.

    1. Grazie 🙂

  2. The Butcher · ·

    Io purtroppo devo ancora vedere The Lobster (la trama mi aveva incuriosito parecchio). Però come regista pare veramente affascinante.

  3. Giuseppe · ·

    Film d’autore, recensione d’autrice 😉
    In effetti ho poca familiarità con il cinema di Lantinos (mi mancano sia Kynodontas che The Lobster) e con la sua distaccata e pessimistica visione della natura umana, ragion per cui per me questa sarà un’esperienza nuova…
    P.S. Sempre a proposito di indie horror interessanti, l’avevi visto Lord of Tears?

    1. L’ho visto qualche annetto fa. Non era male affatto, ma dovrei rivederlo, perché ormai ho tanti di quegli horror in testa che alcuni quasi me li dimentico 😀

      1. Giuseppe · ·

        Ecco, c’è una cosa che non devo dimenticare io: farti gli auguri di BUON ANNO! 😀

        1. Buon anno a te! 😀

  4. Io invece lo trovo decisamente il mio cinema. Sarà che sono una persona cattiva.
    Ovviamente non è un film molto emotivo, però la scena in cui la ragazzina canta Burn di Ellie Goulding a cappella io l’ho trovata tra le più da brividi dell’anno.
    Lanthimos fa tanto il freddo e distaccato, ma in ogni suo lavoro inserisce qualche momento di umanità inaspettato che rende il quadro generale ancora più inquietante. Un cuore che batte forse ce l’ha anche lui… 🙂

    1. Ma perché tu sei cattivo, io sono pucciosa 😀

  5. ciccibus · ·

    Quello è il mio Feuerbach! Tu hai preso il mio Feuerbach!

  6. VISTO ! A me è piaciuto da matti e devo dire che mi sento di consigliarlo, lo metto tra le mie pellicole preferire viste nel 2018 assieme a Colonia con la Watson e The Children ( visto in lingua dopo estenuante ricerca, e recensione reperire qua ) .

  7. Ragazzi, che bel film! La più classica delle maledizioni, abusata da troppi film, qui crea un prodotto di alta qualità.
    Fantastici i piccoli dettagli, come il padre che parla veloce e in modo quasi meccanico o la relazione su Ifigenia buttata lì quasi per caso, e fantastiche le inquadrature! La ripresa verticale del figlio che cade per terra è terrificante.
    Veramente un bel film e grazie per la recensione, perché se avessi letto solo la trama, non conoscendo Lanthimos, probabilmente non l’avrei visto.

    1. Ora è il momento di vedere tutta la filmografia (son altri tre film, niente di che) di Lanthimos!

  8. Bellissima recensione e condivido tutto a pieno! Tuttavia guardando il film oltre ad alcune di quelle elencate da te (come la vicinanza della storia al mito greco) mi è venuta in mente un’altra possibile interpretazione e volevo sapere cosa ne pensavi.
    Credo che tutto il film giri attorno alla concezione dell’impossibiltà da parte delle persone di prendersi le proprie responsabilità (forse i due casi più esaltanti sono il fatto che Colin Farrel non accetti che il padre di martin sia morto per un suo errore (o perché era ubriaco) e infatti andrà a scaricare la colpa sull’anestesista (che a sua volta la ripasserà al chirurgo) e anche la scena finale in cui dopo che per tutto il film Farrel si nasconde dietro la spiegazione che i figli sono malati per qualche fattore psicologico, nel momento in cui deve uccidere qualcuno sia affida al caso ( o a dir si voglia la “tuxe” della letteratura greca).
    Pensi che sia una visione troppo forzata o sono elementi che il regista voleva inserire nel film?
    Grazie mille!

    1. Ma io credo che non lo sia affatto: di sicuro c’è questa componente del voler sempre scaricare le proprie colpe sugli altri, dell’incapacità di ammettere l’errore.
      Soprattutto in un ambiente alto-borghese come quello dei protagonisti, per cui il regista mostra di non provare alcuna simpatia.
      Grazie a te per il commento 🙂