Fantasmi per Halloween: A Ghost Story

 Regia – David Lowery (2017)

Quest’anno si cambia: per svariati motivi (alcuni dei quali non possono essere spiegati ora, ma spero che a breve potrò essere più esaustiva), sto ripassando un po’ la filmografia dedicata ai fantasmi e sto facendo una bella scorpacciata di film. Ho quindi pensato che avrei potuto infliggervene qualcuno sul blog, proprio nel mese di ottobre, il più spaventoso dell’anno, il mese che si conclude con la festa più bella dell’anno, Halloween, l’unica ricorrenza che mi fa piacere celebrare.
E quindi, a partire da oggi, ogni venerdì ci sarà un bello spettro qui ad aspettarvi, sperando di farvi cosa gradita.
Cominciamo con un film che forse non ha neanche diritto di cittadinanza da queste parti: A Ghost Story è tutto fuorché un horror, ma si sa, i fantasmi al cinema (e in narrativa) non hanno avuto sempre il compito di spaventare; sono stati usati in funzione comica, tragica, sentimentale e hanno fatto da specchio ai vivi sin da quando esiste l’arte del raccontare, e quindi da sempre.
Avrete sicuramente letto altre cose in giro, relative al film di Lowery. Tra queste ci saranno stati i soliti, sagaci e sarcastici battutari dell’internet che lo avranno definito: “un’ora e mezza di Casey Affleck con un lenzuolo in testa” o “cinque minuti senza stacchi di Rooney Mara che mangia una torta”.
Ecco, io vi chiedo di cancellare dalla vostra mente queste sciocchezze, dettate da un approccio al cinema che, a parere della sottoscritta, è quanto di più sbagliato sulla faccia della terra, quell’approccio che consiste nel rifiutare a priori un film quando si porta dietro le etichette infamanti di “lento”, “menelenso” e, la peggiore di tutte, “troppo intellettuale”.

 

A Ghost Story è un film statico, è un film che parla di sentimenti, e lo fa senza pudore, ed è un film che non disdegna occasionali sprazzi di intellettualismo. È vero che c’è un lungo piano sequenza di circa 5 minuti, a macchina fissa, in cui la protagonista mangia una torta ed è vero anche che Casey Affleck va in giro per tre quarti di film con un lenzuolo in testa, come nella più classica iconografia del fantasma, una rappresentazione che ormai rimane solo in qualche vignetta. Ed è un’opera serissima, sepolcrale e solenne, in cui si parla di tempo ed eternità, della persistenza e fragilità della memoria, delle tracce che lasciamo nel mondo e di ciò che resta di noi, sempre che qualcosa rimanga.
Si apre con una citazione di Virginia Woolf tratta da un racconto brevissimo, Una Casa Stregata, appena due pagine di rara e assoluta bellezza che vi consiglio di recuperare con qualunque mezzo a vostra disposizione: “A qualunque ora ci si svegliasse c’era una porta che si chiudeva. “, questa la frase che Lowery mette in testa al  film e imposta immediatamente l’atmosfera rarefatta che vi accompagnerà per tutta la sua durata. 

C. e M. (dei due personaggi principali conosciamo solo le iniziali) sono una coppia che vive in una casa con qualche annetto sulle spalle. Si capisce, dalle prime scene, che c’è aria di trasloco e che lui non è proprio entusiasta di andarsene. Ma il trasloco non avverrà mai, perché C. muore in un incidente stradale e M. resterà a vivere in quella stessa casa dopo la scomparsa del suo compagno.
Che si risveglia all’obitorio, coperto da un lenzuolo e invisibile agli occhi dei vivi. E non sa dove andare, quindi non può fare altro che, anche lui, tornare a casa e osservare M. che elabora il lutto, riprende gradualmente a vivere, conosce un altro uomo e, dopo un tempo imprecisato, se ne va definitivamente da lì.
C. non può seguirla, è bloccato in quella casa, dove si avvicenderanno diversi inquilini, fino alla sua demolizione.

Insomma, tutto qui, girato con lunghe inquadrature statiche (ma con grande profondità di campo), pochissimi stacchi, dialoghi dispensati con il contagocce, azione quasi nulla e persino in un formato molto particolare, 1.33 : 1. State già scappando a gambe levate, vero?
Non dovreste, perché A Ghost Story è uno di quei film dal dono raro di rapire lo sguardo dello spettatore, obbligandolo a vagare all’interno del fotogramma alla ricerca di risposte. Anzi, è un film che ci ricorda che abbiamo uno sguardo e che questo sguardo può scegliere, non deve essere per forza guidato, o violentato, da tagli continui che lo indirizzano senza lasciargli alcuna libertà. E così, anche in un’inquadratura fissa di 5 minuti, potremo scoprire che c’è tantissimo da vedere. Cose che dovrebbero essere scontate, a chi ha visto più di una decina di film in vita sua, ma che purtroppo non lo sono, dato che questo linguaggio passa per ostico, quando non lo è affatto. E se non esistesse l’assurda divisione (di cui abbiamo parlato già troppe volte) tra cinema “popolare” e cinema “d’autore”, forse il pubblico non comincerebbe a sbadigliare quando un’inquadratura dura più di due secondi.

Perché, in teoria, dovrebbero esistere solo le belle storie ben raccontate e, lo sapete, ogni storia necessita del suo linguaggio particolare. A Ghost Story è una storia sull’attesa (di cosa, dovete scoprirlo da soli e non è detto che la risposta sia univoca), sulla sospensione, sulla mancanza. Non puoi raccontare una storia del genere tramite la frenesia. C. “vive” in una bolla in cui il tempo, così come noi lo intendiamo, perde di senso: un anno può durare quanto un battito di ciglia e un attimo si può dilatare all’infinito. Impossibilitato a muoversi nello spazio, C. si sposta nel tempo. O forse è il tempo che si sposta intorno a lui. O meglio ancora, le esistenze limitate delle persone che vanno a vivere nella sua casa, e che possono percepire la presenza di C. o ignorarla del tutto.
C. è spettatore passivo e silenzioso. Solo in un’occasione (con bella citazione da Poltergeist) agisce attivamente sull’ambiente che lo circonda, e solo in quell’occasione spaventa.
Neanche ci è dato di sapere cosa provi, mentre al contrario ciò che proviamo noi è un senso di straziante malinconia di fronte a quella solitudine cosmica.

Cosa c’entra, con tutto questo, Virginia Woolf? Il suo racconto parla di una coppia fantasma che cerca qualcosa di smarrito, in una casa dove abita un’altra coppia. I viventi non possono vedere i morti, ma contemplano gli effetti del loro passaggio (quello sbattere di porte) e ciò che è andato perduto sarà ritrovato nel più inatteso dei modi. Verrebbe da chiedersi cos’è un fantasma e, se non avesse già magnificamente risposto del Toro ne La Spina del Diavolo, potremmo arrovellarci per ore alla ricerca di una risposta: “Un sentimento sospeso nel tempo. Come una fotografia sfocata. Come un insetto intrappolato nell’ambra“.
Guardate A Ghost Story avendo in mente questa definizione, poi pensate alla Woolf e ai suoi “moment of being”, alle sue epifanie sommesse, alla collezione di attimi con cui spesso sono costruite le sue storie. Sommate a tutto questo un pizzico di Hodgson e del suo La Casa sull’Abisso, con il protagonista seduto in una stanza a contemplare lo scorrere dei secoli  e avrete una piccola idea di cosa vi aspetta se deciderete di guardare A Ghost Story.
Una visione a tratti faticosa, non lo nego, anche esasperante volendo, ma in grado di toccare corde emotive profondissime e, soprattutto, di fare cinema con un lenzuolo, quattro pareti e un budget inferiore a centomila dollari.

13 commenti

  1. Ce l’ho in lista (suggerito dal solito B.V.Z.Elvezio) sto aspettando le condizioni di calma giusta per guardarmelo, ché so come una qualsiasi sera devastato dal dopolavoro mi ridurrebbe la gioia della visione.

    Lo metto sullo scaffale dei titoli come “I Am the Pretty Thing That Lives in the House” per questo revival silenzioso dei fantasmi che, al pari di altre figure dell’horror, sono stati trattati spesso maluccio e intrappolati (stile Ghostbusters) in un loro “genere” che deve avere regole precise su forme, apparizioni e numero di jump scares.

    La definizione di Del Toro è uno di quei ricordi che rimangono inchiodati al cervello. Avrò visto il film secoli fa ma è indimenticabile, uno dei miei preferiti sui fantasmi.

    Attendiamo con ansia il prossimo venerdì! 🙂

    1. Sì, il filone è più o meno quello del film di Perkins, ma Perkins è un po’ più funambolico e autocompiaciuto (che non sono difetti), mentre Lowery è quasi “francescano” 😀

  2. Blissard · ·

    Bello il filone Ghost stories, aspetto trepidante!
    Sul film in questione però non so… A me è sembrato un film evanescente come il suo protagonista, con tanti buoni spunti messi su però un po’ a casaccio e un po’ troppo autocompiacimento – scusa se ti rubo il termine – che annacqua l’intensità complessiva. Mi è piaciuto, intendiamoci, ma onestamente non mi è sembrato all’altezza delle smisurate ambizioni del regista: girare un film fortemente emotivo nel quale le emozioni siano soffocate.

    1. Ma non so quanto possa essere definito autocompiaciuto uno che gira solo con la macchina fissa e non fa un virtuosismo neanche a pagarlo.
      Forse è troppo cerebrale, questo sì, a volte molto molto lento, però nel complesso è un ottimo film.

  3. Il tuo post mi incuriosisce. Gustoso. Lo vedrò di sicuro. Spero “d’esser rapito”. “La casa sull’abisso” lo sto rileggendo. E’ entusiasmante. Hodgson e Machen sono i miei preferiti. ORRORE COSMICO A TUTTI!!!!!!!!

    1. Hodgson è un mito. Io almeno una volta l’anno rileggo i racconti di Carnacki ❤

  4. lizardinthebottle · ·

    John Silence.

  5. Alberto · ·

    Chiedo scusa se ogni tanto vado fuori tema, ma chi ha vinto poi, Siegel o Fuller?

    1. Ha vinto Fuller, ma ho gravi difficoltà a rintracciare il suo film d’esordio e quindi ci sto mettendo una vita per cominciare. Ce la farò, prima o poi!

  6. Giuseppe · ·

    Già solo la riproposizione delle trite e ritrite -oltre che originalissime, eh- accuse di lentezza e “intellettualismo” (tradotto per i contemporanei: se non me lo spiegano non ci capisco un cazzo) è un qualcosa che mi spingerebbe a vederlo anche solo per ripicca verso cotanti sagaci “esperti” (nonché, immagino, profondi conoscitori della Woolf): quanto poi alle scontate ironie sulla scelta di rappresentare lo spettro con tanto di lenzuolo, direi che le premesse di quel lenzuolo e la cosmica solitudine hodgsoniana alla quale è destinato chi lo porta dovrebbero far passare velocemente a chiunque la voglia di fare lo spiritoso…
    Per rimanere in tema spettrale, ti è mai capitato di vedere quel tv movie BBC sceneggiato dal grande Nigel Kneale e diretto da Peter Sasdy nel 1972, The Stone Tape (ovviamente inedito da noi)? Vecchia scuola British… credo potrebbe piacerti 😉

    1. No, non l’ho mai visto! Ma è facilmente reperibile? Così provo a recuperarlo subito!

      1. Giuseppe · ·

        Ho fatto un rapido giro di ricognizione: lo si può vedere integralmente su Youtube 😉
        Se poi volessi aggiungere il DVD alla tua cineteca, Amazon UK ha ancora disponibile a prezzi abbordabili l’edizione del BFI (distribuita nel 2001, che a occhio e croce sembra la stessa da me faticosamente trovata qualche annetto fa)… poi ci sarebbe l’edizione rimasterizzata del 2013, di cui però non so molto, tranne che viene proposta a doppio disco (film + mockumentary BBC “Ghostwatch”).
        Ecco, credo di averti dato tutte le coordinate giuste per cominciare la caccia al tesoro 😉

  7. Francesca Fichera · ·

    Ricordavo che ne avevi parlato – ho il link sepolto da qualche parte nei preferiti di Facebook – e mi ero ripromessa di recuperare, anche qui con imperdonabile ritardo. E niente, riesci sempre a farmi commuovere, carissima.