The Devil’s Candy

z Regia – Sean Byrne (2015)

Il cinema horror e la famiglia. Non esiste concetto più abusato di questo. Sul nucleo famigliare si basa più della metà dalla produzione mondiale di horror. La famiglia, che sia borghese, proletaria, unita, disfunzionale, in crisi, autodistruttiva, vittima, carnefice, in pericolo o essa stessa fonte del pericolo, è da sempre al centro delle fantasie di registi e scrittori. Se poi parliamo di famiglia in una casa infestata, possiamo cominciare a stilare un elenco infinito. E che dire della famiglia che si trasferisce in una nuova abitazione venduta a un prezzo stracciato perché è stata teatro, qualche anno prima, di un paio di morti violente?
Quanti film dell’orrore cominciano in questo modo? Avete già perso il conto, vero?
The Devil’s Candy ha un coraggio da leone nel voler riproporre una situazione così tipica e che il pubblico sembra conoscere come le proprie tasche: la famiglia Hellman trasloca in una casa più grande ma dal costo contenuto e quindi alla portata delle loro finanze; nella villetta sono morte due persone: pare si sia trattato di un incidente e un suicidio; il padre (un grandissimo Ethan Embry) è un pittore che adibisce il fienile a studio e comincia a sentire le voci; c’è un tizio sospetto che gravita intorno alla casa e mostra un interesse morboso nei confronti della giovane Zooey. Apparentemente, ci troviamo in una zona comoda che va da Shining ad Amityville e possiamo prevedere con un certo anticipo quello che succederà, l’inevitabile scoppio di follia del padre, le presenze diaboliche che spingono delle brave persone a fare del male a chi amano e via così, di cliché in cliché.
Ecco, bravi, cancellate tutta questa spazzatura dalla vostra testa perché The Devil’s Candy è un’altra cosa.

Di Sean Byrne avevo perso le tracce: dall’esordio folgorante (sì, è banale, ma è la pura verità) del 2009 sono passati sette anni e, a un certo punto, persino io che seguo spasmodicamente le carriere di registi giovani e con pochi titoli all’attivo, avevo perso le speranze. Ma poi, all’alba del 2015, alcuni timidi segnali di vita. Pareva che Byrne avesse un nuovo film pronto. Nessun’altra notizia fino alla presentazione di The Devil’s Candy al Tiff di quest’anno. Deve essere una prerogativa dei registi australiani che piacciono a me, quella di farci sudare tra un’opera e l’altra. Un po’ come quell’altro matto di McLean, che fa un film nel 2008 e il successivo direttamente nel 2014.
Non so se far passare così tanto tempo sia dovuto a problemi legati alla ricerca di finanziamenti o sia frutto di una scelta precisa. Spero solo che, dopo The Devil’s Candy, Byrne non si fermi di nuovo, perché l’horror ha un disperato bisogno di registi come lui, capaci di prendere strutture tradizionali e sovvertirle per creare film che abbiano la statura dei classici.

Il segreto, in questi casi, è sempre la scrittura, soprattutto quella dei personaggi: “if you don’t care you don’t scare“, ovvero se non ti importa, non ti spaventi. Questa è una citazione dello stesso Byrne in una intervista di qualche anno fa e credo dica tutto sul suo approccio all’horror. È un discorso che qui abbiamo fatto decine di volte, prendendo come esempio quei film che sono guidati dai personaggi e non li usano come fossero marionette. La differenza è sottile, eppure è fondamentale. Prendiamo come esempio il nucleo famigliare messo in scena in The Devil’s Candy: gli Hellman, tutti e tre,  sono una delle più affettuose ed empatiche famiglie della storia del cinema horror e non è un’iperbole, dato che, nonostante quanto abbiamo detto prima, la famiglia in pericolo solitamente al centro dell’horror più mainstream è una specie di concentrato di ogni luogo comune borghese sulla faccia della terra.


Gli Hellman sono diversi, invece. A partire dal legame fortissimo tra padre e figlia (Kiara Glasco: tenete d’occhio questa giovanissime attrice) che si manifesta nell’amore per la musica metal, passando per le piccole incomprensioni, le dimenticanze, gli scazzi quotidiani che però non mettono mai in discussione l’affetto profondo che lega queste tre persone, fino ad arrivare alla relazione molto adulta e intelligente tra Jesse Hellman e sua moglie Astrid (Shiri Appleby), sono tutte rarità. Siamo abituati a vedere queste coppie in crisi dove lui è un coglione immaturo e lei una specie di mostro castrante e isterico, mentre la figliolanza annega nel disagio. In questo film si respira armonia sin dalle prime inquadrature e, nonostante la tragedia che gli pioverà addosso, gli Hellman ce la metteranno tutta per preservarla.
Che, per descrivere una famiglia non disfunzionale, Byrne utilizzi il look del metallaro tipico è un ennesimo regalo che viene fatto a uno spettatore stanco di sprofondare nei luoghi comuni. Pensateci: è quasi una rivoluzione il fatto che Jesse non sia un pessimo padre, non litighi costantemente con la moglie che gli intima di crescere o darsi un svegliata, che non sia quella brutta musica rumorosa (ironia mode on) che ascolta ad attirare le forze del male, ma che al contrario il frastuono rappresenti una forma, per quanto labile, di protezione.

E l’orrore, vi starete chiedendo tutti quanti?
L’orrore poggia interamente sulle spalle del fisicamente mastodontico antagonista interpretato da Prutt Taylor Vince, uno psicopatico con la faccia da bambino che non vorrebbe nuocere a nessuno, ma non ne può fare a meno, un personaggio difficilissimo da digerire, perché nella prima mezz’ora si tende a provare pietà nei suoi confronti e poi a pentirsi improvvisamente di questa pietà. Anche qui è stato compiuto un magistrale lavoro di scrittura su un cattivo che riesce a ispirare sentimenti contrastanti e a fare paura sul serio, non in quanto spauracchio che non fa dormire la notte, ma in quanto concentrato di squallore e disperazione.
Le sequenze che lo coinvolgono sono quelle più angoscianti e anche quelle in cui Byrne dimostra di essere maturato molto dietro la macchina da presa. Lasciandosi alle spalle la furia di The Loved Ones, insieme ai suoi eccessi gore, Byrne gioca con le sfumature della paura e lascia fuori campo di dettagli più espliciti, utilizzando delle ellissi che non hanno la funzione di mitigare, ma di aumentare l’inquietudine. La scena dell’altalena, in particolare (con tutto quel che ne consegue) è un saggio di bravura: non vediamo quasi nulla, intuiamo tutto, stiamo malissimo.

Anche il tema trito della possessione demoniaca è affrontato in modo personale, lasciando grandi spazi di non detto che ci portano a dubitare se The Devil’s Candy sia un horror soprannaturale o se sia “soltanto” la storia di un serial killer e della famiglia che ha la sfortuna di andare a vivere nella sua casa e quindi di incrociare il suo cammino di morte. Se di possessione si tratta (o, più precisamente, di una sorta di schiavitù agli imperativi del demonio) è comunque priva di tutte le contorsioni e trasfigurazioni fisiche che l’hanno sempre caratterizzata da L’Esorcista in giù. Siamo di fronte a una forma molto sommessa e minimale di possessione, dove il quotidiano la fa da padrone e non c’è spazio per complicati rituali e altrettanto complicate spiegazioni di natura religiosa.
Il finale, che purtroppo arriva dopo una brutta sequenza con fiamme in CGI da cavarsi gli occhi, lungi dall’essere consolatorio, fa terminare il film su una nota di sconfitta e impotenza. Le lacrime di Jesse sono uno di quei momenti cinematografici destinati a rimanermi stampati nella memoria.
The Devil’s Candy è un film raro e prezioso: ha anima, spessore, potenza visiva e concettuale e tocca delle corde profonde presenti in ognuno di noi. In questo senso può essere definito un classico moderno, perché comunica a un livello che è universale e senza tempo.
E, se tutto questo non dovesse bastarvi, ha una colonna sonora che spacca svariati culi.
Vi linko anche l’articolo di Kara Lafayette.

P.S.
Il post che avete appena letto è dedicato al mio amico Marco e alla sua famiglia.

12 commenti

  1. Lucia nn saprei proprio come fare senza il tuo blog 🙂 Ora sono super curioso di vedere the Devil’s candy

    1. Ma grazie! Comunque non sono io: è il 2017 che sta cominciando a sparare i grossi calibri 😀

  2. valeria · ·

    venduto, anzi vendutissimo! 😀

    1. Dovrei fare il piazzista 😀

      1. Giuseppe · ·

        Mi stuzzica parecchio, per cui compro anch’io! 😉

  3. Purtroppo non mi ha entusiasmato. Il coinvolgimento si è rivelato piuttosto basso, proprio le caratterizzazioni dei personaggi, anzi, le ho trovate piuttosto monodimensionali: la moglie affettuosa e preoccupata, la figlia metallara e ribelle, il pittore diviso fra lavoro e famiglia, un assassino timido e introverso ma minaccioso, che risalta più degli altri solo per l’interpretazione di Vince, ma alla fine la sua psicologia e le sue motivazioni sono quasi nulle. Poi il film alternava sequenze frettolose di dialogo (poteva esserci qualcosa in più per dare corpo al film, mi risulta che sia stato anche tagliato di venti minuti, quindi chissà) a lunghe scene in cui il pittore disegna in trance, che alla terza volta mi hanno un po’ stufato (con tutta la pazienza del mondo eh, ma ho capito il concetto anche se non me lo mostri cento volte). Poi per me il finale è stato difficile da sopportare, e non solo per la Cgi, ma per la mancanza di logica di una stanza in fiamme in cui i personaggi lottano e scappano come se potessero respirare liberamente, e per il solito tran tran di eventi che si svolge in maniera prevedibile e a volte al limite del ridicolo; ora, le falle logiche in un horror le posso tranquillamente sopportare, se il film mi ha coinvolto, purtroppo non è stato questo il caso,( sicuramente anche colpa mia, eh, vedo che in generale è piaciuto alla critica). Poi apprezzo il cercare di fare qualcosa di poco sensazionalistico in un horror, di impostare un impianto visivo abbastanza sopra la media, ma per me non è sufficiente se alla base non c’è una costruzione più solida. Articolo approfondito e interessante come al solito, comunque, scusa per il papiro 😉

  4. canenero · ·

    Visto ieri sera. Volevo ringraziarti per le segnalazioni, ormai quando non so cosa guardare vengo sul tuo blog e scelgo un titolo a caso 😀

    1. Ma figurati! Sono contenta di consigliare titoli validi!

  5. Questo commento un pò “te lo dovevo” visto i dissidi precedenti, ahahahahah… ma a parte questo volevo semplicemente comunicarti che ho appena finito di vedere questo film, e l’ho trovato di una bellezza quasi commovente. Bellissimi in tutti i sensi i protagonisti, bella la storia, eccezionale il cattivo, stupenda la regia, bella la strizzata d’occhio al metal, meravigliosi i colori, belli i temi, splendida – come dici tu – la famiglia, ed eccezionale questo “male” che ti piomba addosso non si sa da dove, che non lascia scampo alle vittime ma neppure al colpevole – raramente si vedono “cattivi” così “prede” del male che li costringe a uccidere… di solito, soprattutto nei blockbuster americani, sono tutti ghignanti cattivoni fighi e compiaciuti – e che trita ogni cosa senza il minimo ripensamento. quel “male assoluto” che è tipico della cinematografia europea, di solito, e che è semplicemente uno schiacciasassi privo di forma e di mente, un’entità astratta che porta dolore e distruzione.
    L’unica cosa che mi è sembrata strana e non vorrei aver visto? La “Belial”, della quale non ho capito nè il significato nè l’utilità nè la necessità. Davvero troppo insistito e palese il richiamo satanico, ma per quel che mi riguarda inutile e pure fastidioso.
    Film ottimo, una stretta al cuore dall’inizio alla fine, una famiglia che si ama senza ritegno e per la quale si fa il tifo. Davvero, davvero, qui si vede la differenza tra la fuffa e l’oro.
    Horror al suo meglio, davvero un gran lavoro.
    Posso, dunque, per una volta semplicemente ringraziarti di cuore della segnalazione.

    1. Ma figurati 😀
      Comunque la penso esattamente come te, anche sulla Belial, perché una questione del genere o la approfondisci parecchio oppure non puoi lasciarla pendere in questo modo.
      Però, sempre come dici tu, l’amore per i personaggi e per la scrittura del film, fanno tranquillamente passare sopra a certi difetti. 🙂