Arrival e l’essenza del cinema

arrival-movie-poster-2 Regia – Denis Villeneuve (2016)

Non voglio recensire Arrival, non posso recensire Arrival, non è neanche necessario recensire Arrival. Anzi, è pretestuoso pensare soltanto di recensirlo, perché quando ci si trova davanti a un’opera d’arte, che ti vuoi recensire? Bisognerebbe limitarsi a guardarlo in religioso silenzio, questo film e, soprattutto, fare uno sforzo in più per capirlo a fondo, perché, in maniera diametralmente opposta a tantissimi blockbuster di fantascienza con ambizioni d’autore della storia recente, l’emozione che Arrival suscita è imprescindibile dalla sua comprensione razionale, dal riconoscerne le implicazioni profonde ed emozionarsi per quelle. Insomma, è un film che rifugge la fruizione “di pancia” (odio questa espressione, ma ci siamo capiti) e chiede allo spettatore di non limitarsi a sgranare gli occhioni per l’effetto speciale o commuoversi per un dramma familiare, esige la sua partecipazione: il regalo più bello che un film ci possa fare.
Regalo che molti non hanno affatto apprezzato e in questo risiede un’amara ironia che afferrerete se il film lo avete visto. Se non lo avete visto, non proseguite la lettura del post e correte a vederlo, senza perdere neanche un istante. Da qui in poi, saranno presenti SPOILER.

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Esiste, soprattutto in rete, la tendenza a giudicare i film facendo un largo uso dell’iperbole. Per buttarla giù semplice, ogni film che esce al cinema è un capolavoro o una cagata. Anzi, o è il capolavoro più importante della storia o la cagata peggiore dell’universo conosciuto. Del film oggetto di tali epiteti ci si dimentica nel giro di un paio di settimane (a voler essere generosi), perché subito arrivano a sostituirlo altri capolavori o altre cagate.
In questo modo, non solo si accorcia la vita dei film, già abbastanza breve, dato il ritmo con cui arrivano in sala e poi scompaiono da essa, ma si rischia di non riconoscere un capolavoro vero, le rare volte in cui ci si presenta davanti, si rischia di lasciarlo passare, di non dargli il giusto peso, nonostante lo si chiami capolavoro. E infatti il mio post arriva “tardi”, perché il film è già “vecchio” di una settimana.
Alla fine, è tutto un problema dei termini che scegliamo per comunicare.
E Arrival è un film sulla comunicazione, su quanto sia indispensabile trovare le parole giuste, i significati giusti da attribuire ai segni. Non solo comunicazione in senso lato, ma comunicazione scritta, ché quella verbale viene messa fuori gioco sin dai primi minuti.

Denis Villeneuve è un grande manipolatore di generi e ha affrontato di petto la fantascienza andando a trasporre un racconto che, quando l’ho letto, pochi giorni prima di vedere il film, mi ha fatto dubitare di lui per la prima volta: Storie della Tua Vita è quasi infilmabile, non è cinematografico, è statico e molto povero di avvenimenti. È anche uno dei racconti più stimolanti io abbia mai letto, uno di quelli che poi passi le nottate a ripensarci e non riesci ad addormentarti. Ma è difficilissimo da portare sullo schermo.
Il solo fatto che Villeneuve ci sia riuscito è indice del calibro del regista di cui abbiamo la fortuna di seguire la carriera, uno di quei quattro o cinque nomi contemporanei destinati a essere studiati nei decenni futuri. E non solo ci è riuscito, ma lo ha anche approfondito e ampliato, com’è giusto che sia, dato che il racconto sarà di una trentina di pagine. Non lo ha però mai tradito.

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Non essendo, come ho già detto, in grado di recensire un’opera simile, vorrei limitarmi a fare il tentativo di analizzarne la portata cinematografica, che non è facile ugualmente, ma almeno è più nelle mie corde.
Partiamo dunque dall’idea di trarre un film dal racconto di Chiang, una delle idee meno hollywoodiane che si potessero concepire. Un certo tipo di fantascienza, che per comodità definiremo “adulta”, è ricomparsa tra i grandi blockbuster americani solo da pochissimo tempo, da Interstellar, a voler essere precisi e, per quanto io non lo abbia amato affatto, bisogna riconoscergli il merito di aver tolto quel particolare tipo di sci-fi dalla nicchia e averla data in pasto al grande pubblico.
Solo che Villeneuve compie un’operazione ancora più coraggiosa, ancora più estrema, se mi passate la parola, perché in Interstellar si usava lo spettacolo per obbligare lo spettatore a star dietro ai concetti complessi che a Nolan interessava esprimere.
Qui non viene usato neppure lo spettacolo. Come dice questo post che vi invito a leggere con attenzione, Arrival è un film scarnificato, ridotto all’osso, un film a cui Villeneuve sottrae qualsiasi tipo di orpello, un film così essenziale che si presenta a noi nudo, puro, quasi privo di attrattive, eppure con il respiro di un grande colossal e la statura del cinema enorme.

Restando in un ambito strettamente tecnico, val la pena di analizzare gli accorgimenti attraverso cui Villeneuve ha raggiunto questo risultato. Cominciamo con il reparto da sempre più visibile, soprattutto in ambito sci-fi: i vfx. L’utilizzo che viene fatto degli effetti speciali in Arrival è impressionante, perché invisibile. Ma, ve lo assicuro, sono una tonnellata, sono presenti in quasi tutte le inquadrature. Ci sono, e sembrano non esserci, non invadono mai il campo, non sono mai in primo piano. Esistono in quanto necessari e funzionali, nonché integrati alla perfezione nel contesto, nel tessuto narrativo. Credo non esista, a oggi, un altro film dove la tecnologia a disposizione del cinema si piega in questo modo alla storia e alla regia. Anzi, mi sono espressa male: si fonde con la storia e la regia, diventa indistinguibile da esse, non esibizione muscolare, ma sommesso e costante accompagnamento. I vfx sono, semplicemente, parte dell’ambiente.

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Altro elemento che mira all’essenza è la fotografia.
Questa volta, Villeneuve non ha Deakins come direttore della fotografia, ma si avvale della collaborazione di Bradford Young . Tuttavia, rispetto ai film precedenti del regista canadese, le direttive non cambiano di molto: abbiamo sempre quelle scene meravigliose girate con le luci a cavallo, tramonti o albe, che abbiamo già visto l’anno scorso in Sicario. Questa volta, però, Villeneuve e Young smorzano tutte le tonalità, non per appiattire, ma per sottrarre, quasi che Arrival si svolgesse sempre in condizioni atmosferiche grigie e incerte, con una perenne minaccia di pioggia, nel corso di una noiosa e quotidiana giornata lavorativa. È come se si volesse sottolineare la non eccezionalità di quello a cui stiamo assistendo, anche se è eccezionale, come se Villeneuve avesse affrontato il suo film con lo stesso rigore dei protagonisti. Ecco, Arrival è un film ascetico, privato anche della spettacolarizzazione di immagini dai colori accesi ed esplosivi, concentrato in maniera quasi ossessiva sul puro linguaggio cinematografico bastante a se stesso.

E, infine, c’è il montaggio, firmato da Joe Walker, in pratica Dio sceso in terra (non scherzo, guardate cosa ha fatto in carriera). E qui arrivano per forza gli spoiler sopra minacciati, perché il montaggio è narrazione e Arrival narra con una semplicità disarmante degli avvenimenti molto complessi, traducendo in immagini una concezione del tempo opposta alla nostra e resa del tutto chiara con poche, fondamentali scelte su dove andare a tagliare e dove inserire determinati flashforward.
Detto nel modo più pedestre possibile (e mi perdoneranno Chiang, Villeneuve e lo sceneggiatore Eric Heisserer) si parla di ricordare il proprio futuro, che non è la stessa cosa di prevederlo. La linguista Louise (Amy Adams), imparando la lingua degli eptopodi, comincia a percepire il tempo come lo percepiscono loro e quindi in maniera non lineare. Non prevede, quindi, ciò che accadrà, ma lo vive come se avvenisse in simultanea al presente: eliminando il rapporto di causa-effetto, si elimina forse il concetto stesso di futuro.
Ora, raccontare una cosa del genere (mi sono complicata io la vita a scriverla in poche righe) in un film, facendo anche un uso estremamente parco dei dialoghi, è davvero un’impresa. Qui interviene il montaggio, che ragiona in termini di successione, quindi capite anche voi il paradosso. Non sto dicendo che Walker si è inventato il montaggio non lineare, sia chiaro. Sarei pazza e ignorante come una capra se affermassi una cosa del genere. Sto dicendo che il montaggio di Arrival, pur procedendo secondo una successione di scene, riesce a farci percepire questa simultaneità e ci porta dentro al dramma personale di Louise come se lo stessimo vivendo in prima persona. È esemplare, in tal senso, la scena della telefonata al generale cinese, dove si capisce ogni cosa senza che ci venga spiegato niente, solo grazie alle scelte di Walker e Villeneuve su quando staccare. Un mosaico minuzioso e di precisione millimetrica, condotto, anche quello, con rigore scientifico.

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Ora, dopo tutto questo pippone, forse vi sarà chiara la portata cinematografica di un film così. Un film che parla di linguaggio e comunicazione e lo fa utilizzando il linguaggio cinematografico al massimo della sua forza espressiva, senza brandirlo come una clava per sbalordire il pubblico. Davanti ad Arrival si è costretti a subire ritmi dilatati, una narrazione tutta di testa, razionale fino alle sue più estreme conseguenze, fino a ritrovarsi raggomitolati a piangere come dei bambini, ma solo se si è compreso a fondo il senso ultimo del film. E per comprenderlo bisogna ragionare a visione in corso, non si può essere passivi. Quanto visto va elaborato, processato e soltanto allora arriva la botta emotiva, che è forte nella misura in cui si è prestata attenzione.
Vi rendete conto di cosa significa? Un film che ci mostra quanto sia importante confrontarsi, parlarsi, capirsi, raccontarsi, procedere oltre barriere culturali e provare, a ogni costo, a collaborare. Non per qualche inspiegabile afflato di amore universale, ma perché è la cosa più logica da fare. Un film che esalta l’umanità e la vita dei singoli individui, un film che suscita meraviglia e timore per l’universo che ci circonda. Ma che vi chiede tanto, vi chiede di essere presenti a voi stessi mentre lo guardate, vi chiede di non essere passivi, vi chiede di mettervi nei panni di Louise e tradurre il linguaggio cinematografico in emozione. Non c’è nessuno che lo farà al posto vostro, che vi indicherà quando dovete piangere o quando dovete sorridere. È un lavoro che spetta a voi.
Questo è il dono che ci ha fatto Villeneuve e, se ci pensate, non è poi così dissimile dal dono fatto a Louise dagli alieni.
Per quanto mi riguarda, il 2017 cinematografico potrebbe anche finire qui e sarei felice lo stesso.

24 commenti

  1. Bel post, condivido ogni parola di ciò che scrivi.
    Proprio per questo, per il fatto che so riconoscere la bellezza.quando la vedo, per quelle musiche stupende che ricordano i Sunn 0))) – e certi momenti di “Under the Skin” -, per l’ammirazione verso Villeneuve e la sua visione, per il fatto di essere un traduttore che crede con fermezza nel ruolo della comunicazione… per tutti questi motivi e altri ancora, è un film che mi ha profondamente spiazzato.
    Non perchè non l’abbia capito, ma perchè – per tutta la sua durata e senza ironia alcuna – io mi sono immedesimato con Forest Whitaker e la sua domanda: “che cazzo vogliono questi?”
    Non saprei spiegarti meglio, mi ha proprio respinto.

    1. Ma è un film che può respingere, forse proprio per la sua scelta di essere sempre cerebrale. Io non lo so, a me ha coinvolto tantissimo. Ma non è che sia un film che deve obbligatoriamente piacere. Lo si può anche capire e respingerlo, o esserne respinti, come è successo a te.

  2. concordo
    è il miglior film della stagione 2016/17
    non vincerà l’oscar (prenotato da LALALA) ma kissenefrega

    1. Ma non può vincerlo in nessun modo, però è già importante che una cosa del genere abbia ricevuto così tante candidature.
      E comunque sì, chi se ne frega dell’Oscar 🙂

  3. …capolavoro?
    davvero?
    la recensione è bellissima, molto lusinghiera…
    io non sono tanto appassionata di fantascienza, però effettivamente ne è stato scritto benissimo

  4. Blissard · ·

    Visto e piaciuto molto anche a me; soprattutto mi ha sorpreso che un regista che si stava facendo un nome proponendo un certo genere di film (penso a Sicario e Prisoners, nella fattispecie) si imbarchi in un’impresa apparentemente suicida come quella di Arrival.
    Ho trovato un po’ faticoso l’inizio, nel quale la scelta di osservare l’invasione aliena con un certo understatement mi è apparsa un po’ forzata, e a mio parere il finale un poco la lacrimuccia la pilota a gran voce in maniera non troppo dissimile da un Nolan di Inception.
    Comunque gran bel film, averecene di fantascienza filosofica e non fracassona come questa.

    Ps antipatico: è vero, probabilmente sono in cerca di un messaggio in tutti i film, comunque possiamo concordare almeno sul fatto che il messaggio lanciato da Arrival è più o meno diametralmente opposto rispetto a quello che Spielberg intende veicolare con La guerra dei mondi? Non lo chiedo per fare polemica inutile, lo chiedo per pura curiosità.

    1. La Guerra dei Mondi è un film (tra l’altro un remake di un film a sua volta tratto da un romanzo) dove gli alieni sono cattivi. Arrival un film (anche lui tratto da un racconto) dove gli alieni non lo sono.
      La narrativa è piena di storie con gli alieni che arrivano qui per distruggerci o per collaborare. Vogliamo dire che i film con gli alieni “cattivi” sono di destra e quelli con gli alieni “buoni” di sinistra?
      E quindi Alien e La Cosa sono film di destra perché ci sono gli alieni cattivi?

      1. Blissard · ·

        Sei passata tu a parlare di destra e sinistra, io non avevo fatto questa banale distinzione.
        La fantascienza ha da sempre proposto alieni “buoni” e alieni “cattivi”, perfetto. Ora, il mio punto di vista è questo: nel 2006, con gli USA e qualche nazione alleata a bombardare paesi in cerca di qualche talebano e di fantomatiche armi di distruzione di massa, a te sembra una scelta “innocente” riproporre La guerra dei mondi? Se la tua risposta è “sì, perchè tanto Spielberg supporta i democratici alle elezioni, e nei suoi film non fa politica”, scusa ma mi sembra un po’ superficiale. In Arrival la questione non è che “gli alieni sono buoni”, la questione è “solo perchè sono alieni, perchè non provare a comunicare con loro invece che bombardarli a raffica?”.
        Alien è la storia di un alienaccio cattivo oppure un apologo su dove l’uomo si possa spingere pur di trovare sempre nuove armi letali? E ne La Cosa di Carpenter, è semplicemente l’alieno che è cattivo o si limita a tirare fuori la diffidenza reciproca che ogni personaggio nutre nei confronti dell’altro? I due (capo)lavori che citi posseggono una complessità che per fortuna non consente una semplice riduzione “è un alieno cattivo, dunque il film è di destra”; questa complessità non è certo presente ne La guerra dei mondi.

        1. La guerra dei mondi non ha una struttura complessa come possono averla Alien o La Cosa. Non la possiede proprio in partenza.
          E comunque a me sembra superficiale dire che, dato che racconta un’invasione di alieni “cattivi”, allora va interpretato come un’esaltazione delle guerre del nuovo secolo.
          Di quello che vota Spielberg non mi interessa affatto. Mi interessano i suoi film. La Guerra dei Mondi non è un film complesso, problematico e forse non è neanche particolarmente riuscito.
          È un blockbuster di fantascienza, basato poi su un romanzo molto vecchio, che Spielberg ha aggiornato, ma neppure troppo. Io la cosa degli USA brutti e cattivi che bombardano mentre Hollywood brutta e cattiva quanto loro, gli presta il fianco, la trovo superata, rimasta più o meno agli anni ’70 e speravo fosse una visione delle cose sepolta dalla storia.

          1. Blissard · ·

            Giuro, non capisco.
            Magnifichi un film come Arrival per il messaggio che veicola e per le modalità con le quali riesce coerentemente a supportare visivamente e tecnicamente questo messaggio, poi però sostieni che altri film messaggi non ne vogliano lanciare manco per niente e che cercarne al loro interno è operazione sediziosa e in mala fede.
            Qui non si parla di Hollywood brutta e cattiva, qui si parla di autori, o addirittura di singole opere (Spielberg è anche quello di Incontri ravvicinati, di ET, di AI, mica solo de La Guerra dei Mondi). A te sembra un’idea campata in aria che taluni pieni di soldi siano intrigati dall’idea di finanziare un film come LGdM nel 2006, a me non tanto; e non è dal mio punto di vista una questione “politica”, è una questione di buon senso. Alcuni registi sarebbero riusciti comunque a far prevalere la loro propria visione rispetto a quella della produzione, a Spielberg semplicemente non è riuscito (e forse nemmeno ci ha tentato). Di base Alien e La Cosa (ma anche Arrival) sarebbero potuti essere schematici e superficiali come e più de LGdM, sono stati Ridley Scott e John Carpenter (assieme a sceneggiatori, esperti di special fx etc.) a renderli complessi e profondi.

          2. No, io dico soltanto che il messaggio di un film come Arrival è palese, è evidente, mentre ne La Guerra dei Mondi, bisogna andarselo a cercare in maniera capziosa. Anzi, neppure un messaggio, una specie di propaganda guerrafondaia subliminale infilata lì dai produttori al soldo del governo americano, con Spielberg esecutore acquiescente.
            A me pare che siamo ai limiti del complottismo per dimostrare quella che è la tua personalissima tesi o personalissima interpretazione di un film.
            Non è affatto la stessa cosa.

          3. Blissard · ·

            Mica tanto personalissima la mia tesi; la critica ufficiale dà per assodato che l’originale La Guerra dei Mondi sia un’allegoria neanche troppo velata del “pericolo rosso”, e non a caso è stato girato e prodotto nel 1953, in piena epoca maccartista. Perchè farne un remake nel 2005? E’ complottismo sospettare che girare La guerra dei mondi con la stessa ottica dell’originale sia un’operazione che può essere interpretata anche come una chiara presa di posizione? Capirei non essere convinti da un’interpretazione del genere, ma definirla delirante e campata in aria lo trovo quantomeno bizzarro. Anche perchè non mi convince la tua contro-ipotesi: la critica che politicizzava tutto negli anni 70 fa cagare, dunque ora se vogliamo essere critici seri e rigorosi ragioniamo come se nei film non ci sia mai un sottotesto politico (nel senso più lato del termine).

          4. Lo spunto originale è un romanzo della fine del XIX secolo, portato sullo schermo due volte.
            Comunque la fantascienza anni ’50 era un contenitore dei terrori dell’epoca e il film del ’53 è un contenitore, come lo è L’Invasione degli Ultracorpi, interpretato dalla critica come una metafora del maccartismo e del comunismo, a seconda di chi scriveva la suddetta critica. Poi è arrivato Siegel e si è fatto due risate.
            I sottotesti politici ci sono, non nego la loro esistenza a priori, ma tu lo vai a cercare in un film dove, secondo me, è davvero difficile da trovare, e soltanto in virtù di un tuo, ormai assodato, pregiudizio nei confronti del regista.
            Oltretutto, scusami, ma regge poco: gli alieni ci invadono e noi ci difendiamo, non è che prendiamo a facciamo una spedizione a mo’ di ritorsione sul loro pianeta.
            Forse una storia così sarebbe molto più leggibile come una metafora post 11 settembre, con gli USA che ti mostrano la guerra come una reazione a un attacco subito.
            E infatti, il vecchio La Guerra dei Mondi parla del pericolo rosso in quanto possibile minaccia che arriva dall’esterno, mentre gli Ultracorpi sono più ambigui, in questo senso, perché la minaccia è sia interna che esterna.
            Tutto questo per dire che mi sembra che tu faccia un’analisi troppo schematica dei contenuti politici di un film. Non ho mai usato il termine “delirante”.

          5. Servirebbe un minimo – ma proprio minimo – di sofisticazione nel gestire le metafore della storia. In War of the Worlkds, Wells scrisse un feroce attacco al colonialismo: i marziani siamo noi, e i terrestri sono le popolazioni a casa delle quali andiamo, importando la nostra flora e la nostra fauna, e metaforicamente “nutrendoci di loro” (SPOILER: i marziani di Wells si nutrono del sangue dei terrestri).
            Il film di Spielberg – che francamente non mi è piaciuto, ma OK – usa la stessa struttura e la stessa metafora: i marziani siamo noi, i terretri sono le nazioni dove esportiamo la nostra democrazia.
            Non mi pare una cosa così complicata, e non mi pare particolarmente di destra.

          6. Blissard · ·

            Premetto che questa discussione mi sta divertendo molto, ma mi rendo conto che è decisamente off topic; se vi va, possiamo continuarla sulla mia pagina rym (https://rateyourmusic.com/~Blissard) o sul forum che frequento (http://neuroprison.forumfree.it/).

            @Lucia: penso di averlo scritto più e più volte, amo molte opere di Spielberg, il mio “assodato” pregiudizio sul regista non è assodato per niente, anzi tutta la discussione è iniziata quando ho manifestato la mia perplessità nel trovare che da un bel po’ di anni a questa parte Spielberg ha alternato pellicole inneggianti alla tolleranza e alla solidarietà e altre più ambigue e sottilmente destrorse, quasi a non volere scontentare nessuno; alla fine penso di potere dire con ragionevole sicurezza che tu stessa che ti spertichi in una difesa “ideologica” di LGdM sai meglio di me che invece in ET e Incontri ravvicinati Spielberg un messaggio lo voleva veicolare, e tale messaggio era ben diverso da quello de LGdM.

            @Davide: il tuo commento mi ha lasciato onestamente un po’ perplesso. Inizi invocando una sofisticazione nella gestione delle metafore, poi però candidamente affermi che il messaggio che Spielberg ci dà con il suo film è paro paro quello del romanzo scritto più di un secolo prima. Per di più, sostieni che un film americano che vede l’America (è il mondo, ma noi gli USA vediamo) colpita da un attacco di alieni nascosti nel suo territorio non richiama (e metaforizza, se preferisci) l’attacco subito dagli USA nel 2001, bensì il colonialismo statunitense… scusami, ma mi appare assai più forzata come interpretazione.

  5. La cosa che mi sorprende, nella reazione del pubblico e dei critici ad Arrival è cjhe ci si sorprenda dei contenuti.
    È FANTASCIENZA.
    E la fantascienza è un genere difficile che obbliga le persone a pensare, ci sottopone l’ipotesi (per dirla con David Brin) che “i nostri figli avranno problemi diversi dai nostri”, ci spiazza, e parla di persone e di scienza (nota a latere: la linguistica è una scienza, o per lo meno si impegna per esserlo). La fantascienza non è rassicurante se non nel rassicurarci (per dirla con Harlan Ellison) che “qualunque cosa accada noi saremo lì, arriverà il futuro e noi ci saremo”.
    La cosa mi sorprende perché in realtà è sempre stato così – Things to Come era così, Ultimatum alla Terra era così, 2001 era così, Il Pianeta delle Scimmie era così, La Fuga di Logan era così.
    Persino Star Trek, che dio mi perdoni, un tempo era così.
    Che il pubblico (e i critici) se lo siano scordato, è criminale.
    E no, non sto proponendo di mettere al muro George Lucas e J.J. Abrams e Peter Jackson.
    Però hanno molti crimini di cui rispondere.

    1. Ma non è solo un discorso legato alla fantascienza, era proprio tutto il cinema a essere così.
      Non perché quello odierno sia fatto male (lungi da me essere nostalgica), ma perché è adeguato al modo di porsi del pubblico odierno. È ovvio che un’industria come quella hollywoodiana punti prima di tutto al guadagno e, se i film che incassano sono quelli lineari, non impegnativi, che non pongono alcuna domanda, Hollywood li produce.
      Ora la domanda è: Hollywood è andata dietro ai gusti del pubblico o Hollywood ha delle responsabilità dirette nel rincoglionimento del pubblico?

      1. Io credo sia un processo di feedback, e quindi Hollywood e pubblico si influenzano reciprocamente. C’è poi la questione della competizione: prima il cinema era in competizione coi libri, poi è stato in competizione con la TV, ora coi videogiochi…

  6. Vedi, lo dicevo io che in giro ci sono recensioni che io me le sogno.
    Grazie, perché ora se mi chiedono del film li posso mandare da te. 🙂

    1. Grazie 🙂
      Parlare di questo film è un obbligo morale

      1. Giuseppe · ·

        Insomma, così mi stai proprio spingendo a vederlo senza prendermela con calma 😉 , come pensavo di fare: non fraintendermi, Villeneuve è O.K. ma quello che più di tutto mi ha frenato fino ad ora è la presenza di un Heisserer che -a parte vecchie ruggini nei suoi confronti, anche per via del famoso prequel che mi ha portato qui da te 😉 – non mi è sembrato proprio avere il background adatto per essere coinvolto in un progetto sci-fi riguardante temi così intimisti e complessi…

  7. Grande grandissimo film..e ottima recensione.
    Villeneuve è Dio e questo film è grande quasi quanto Solaris, 2001, 8 e mezzo.
    Quando grandi capacità tecniche sono al servizio di idde complesse e stimolanti

  8. Lorenzo · ·

    L’ho visto sabato e… Niente, sono ancora qui che tremo

  9. Mario Piluso · ·

    Arrival è uno dei capilavori della nostra epica cinematografica.
    Convordo su ogni parola, e aggiungo: Arrival non parla di alieni e comunicazione, Arrival è un film CON delle persone che devono comunicare con degli alieni, ma il film parla di una madre, del suo dolore, del suo amore.
    Veramente un capolavoro, non esisteva ancora un film sci-fi così.