Il Ponte delle Spie

BRIDGE-OF-SPIES-1-SHEET-UK Regia – Steven Spielberg (2015)

Voi lo sapete, per me Spielberg è una questione di Fede. Non è solo il mio regista preferito (sono tanti, i miei registi preferiti) e non è solo perché lo considero il più grande regista vivente. È un altro discorso da fare, quello su Spielberg: lui, per me, rappresenta il Cinema. O meglio, la mia idea di cinema applicata nella realtà. Cinema inteso anche come luogo fisico, la sala con lo schermo gigante, le luci che si spengono, la musica che inizia e tutto il resto del mondo che svanisce per un paio d’ore. Da che ho memoria, i film di Spielberg li ho visti sempre in sala. Ho iniziato nel 1984 con Il Tempio Maledetto e da allora, ogni santa volta che Spielberg faceva un nuovo film, io mi precipitavo al cinema il primo giorno di programmazione. Tutto questo per dire che ok Star Wars, va bene tutto. Ma il vero hype ce lo avevo per Il Ponte delle Spie.
E comunque, io con Spielberg sono cresciuta. Non solo nel senso anagrafico: con lui ho sviluppato il mio senso critico, è cambiata la mia visione del mondo e, mentre il tempo avanzava e io invecchiavo, ho notato una quasi completa identità di vedute con il discorso, coerentissimo e granitico, che il regista porta avanti da una quarantina d’anni sulla natura umana.
Quindi, vi piaccia o no, io sono una spielberghiana di ferro, fino all’autolesionismo e anche oltre. Spielberg è un padre putativo che ha forgiato la mia morale. Il che, a detta dei detrattori, è il coronamento dell’operazione che il grande diavolo americano compie sistematicamente sulle nostre povere menti indifese. Che volete farci, missione compiuta.

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Detto questo, Il Ponte delle Spie è un capolavoro. Lo è in ogni singolo reparto, dalla sceneggiatura firmata da Joel ed Ethan Coen, alla fotografia del solito Kaminski, passando per il montaggio di quel genio totale che è Michael Kahn, fino ad arrivare alle interpretazioni di Tom Hanks (ormai, signori, la metamorfosi in James Stewart è terminata. Dovrete farvi una ragione anche di questo) e Mark Rylance (dove sei stato fino a ora?). Persino la musica di Thomas Newman non fa rimpiangere un John Williams in altre faccende affaccendato. Sì, parliamo comunque di un compositore tra i più importanti della sua generazione e quindi abbiamo poco da rimpiangere. Ma si tratta del primo film di Spielberg senza Williams e la cosa va sottolineata.
Ho detto capolavoro e non ho alcuna intenzione di rimangiarmi quella parola, che è stata concepita apposta per essere applicata a film come Il Ponte delle Spie. Cinema moderno, ma con il respiro e la potenza, concettuale e visiva, dei classici. Cinema d’autore, perché Spielberg ormai se ne frega di compiacere il suo pubblico e di realizzare opere dall’incasso sicuro e rischia, osa, sfida gli spettatori a seguire una storia di spionaggio priva di azione, con tempi dilatatissimi, dialoghi lunghi e svuotata da quelli che la gente è solita chiamare elementi spielberghiani.
Se non fosse che gli elementi spielberghiani ci sono tutti, espressi con una maturità che soltanto un regista con una carriera enorme sulle spalle può permettersi di ostentare e con una gravità che possiedono solo i grandi apologhi morali.
Il Ponte delle Spie parla infatti di un uomo che si mette contro un’intera nazione per affermare quelli che lui ritiene essere i valori fondanti di quella stessa nazione (e di un intero sistema culturale) che lo disprezza e lo tratta come un nemico.
Valori fondanti che non sono le ciance su libertà e democrazia, ma vengono condensati  in un concetto molto meno astratto e molto più elementare: “ogni uomo è importante”, detto senza enfasi, senza retorica, quasi buttato lì da un Tom Hanks che lo ripete due o tre volte nel corso del film, come fosse una cosa scontata, evidente di per sé, chiara a tutti.
Secondo Spielberg, è questo concetto semplicissimo che caratterizza la cultura a cui appartiene, è il cardine intorno a cui deve ruotare ogni cosa. Ma, per essere davvero fondante, è necessario che venga applicato davvero a ogni uomo, anche a chi consideriamo nemico o avversario, anche a una spia sovietica, che alla fine degli anni ’50 era il nemico per eccellenza, il male incarnato, lo spauracchio in grado di mettere in crisi una società intera.

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L’avvocato delle assicurazioni James Donovan (suo il libro da cui è tratto Il Ponte delle Spie) non ha la tempra dell’eroe, è un uomo comune, ma ha molto chiaro il concetto fondante con cui vi sto ammorbando da diversi paragrafi. E per questo accetta di difendere, con ogni mezzo legale a sua disposizione, il generale Abel, accusato di spionaggio e che rischia la condanna a morte. Non lo fa perché ha simpatie comuniste, lo fa per il motivo opposto.
Ora, che ogni uomo sia importante, Spielberg ce lo va ripetendo da decenni, anche quando sembra parlare d’altro, è sempre lì che torna. Persino quando si tratta di dare la caccia agli squali o di trovare L’Arca dell’Alleanza. Nella sua filmografia più matura tuttavia, è diventata una sorta di urgenza, un tarlo, un qualcosa che sembra pervadere ogni singolo fotogramma delle sue storie da regista adulto e consapevole. In Munich, per esempio, abbiamo assistito alle conseguenze nefaste che si abbattono su chi abbandona la strada maestra del dare importanza a ogni singolo individuo. In Lincoln e ne Il Ponte delle Spie, al contrario, vediamo come si è completamente soli di fronte alla scelta di portare questo concetto alle più estreme conseguenze.
Sono quasi due film speculari, Il Ponte delle Spie e Lincoln. Sono entrambi sofferti, antispettacolari, con una regia di precisione chirurgica e dei dialoghi che hanno il peso di altrettanti macigni. Sono storie di uomini tutti d’un pezzo, che ricordano ai propri concittadini cosa significa combattere per affermare dei valori che dovrebbero essere condivisi e che invece non lo sono quasi mai.
Ma qualcuno deve sempre essere pronto a pagare un prezzo altissimo per ricordare agli altri che ciò che diamo per scontato può andare perduto a causa dei nostri pregiudizi, della nostra ignoranza, della nostra incapacità di riconoscere nell’altro (spia sovietica, schiavo, nemico) un nostro simile, un qualcuno per cui vale sempre e comunque la pena di lottare.

ST. JAMES PLACE

Uomini che scelgono la strada più difficile. Sono sempre stati questi gli eroi spielberghiani. E lo sono ancora. La cosa sorprendente è che Spielberg, invecchiando, non ha mai ceduto al cinismo. Ha anzi razionalizzato e alzato di livello il suo amore per l’umanità. Lo ha estratto dalla metafora del cinema fantastico e lo ha portato sulla terra. Ma è comunque rimasto, ogni film, ogni primo piano, ogni movimento di macchina, fedele a se stesso.
C’è un dialogo, circa a metà film, in cui quel mostro di Rylance racconta un aneddoto della sua infanzia a Donovan. Oltre a essere la scena più intensa ed emotivamente forte di tutta l’opera, oltre a essere un pezzo di grandissimo cinema risolto in realtà con appena un paio di tagli e un lento (quasi impercettibile) carrello in avvicinamento sul volto dell’attore, oltre a essere illuminata da un dio e montata da un gigante, è anche una scena che sintetizza in maniera mirabile l’intera poetica spielberghiana: i protagonisti dei film di Spielberg sono uomini a cui, vedendoli, non daresti mai una lira, ma che puoi colpire centinaia di volte e li vedrai sempre rialzarsi in piedi, fino a quando continuare a picchiarli sarà inutile, perché la potenza della loro etica è impossibile da arginare. Perché quello che affermano rialzandosi ogni volta è l’essenza stessa dell’umanità, quell’umanità che Spielberg ama e celebra da quando ha iniziato a fare cinema.
Ed è la ragione per cui il cinema di Spielberg è universale e capace di parlare a tutti. Film che non possono invecchiare. Classici fuori dal tempo, rivedibili all’infinito. Film che ti germogliano nel cuore e rimangono lì per sempre.

 

19 commenti

  1. Questo è Amore.

    1. Tanto Amore…

  2. anche per ottimo film però in alcune fasi mi sembrava che le problematiche andassero a risoluzione sempre in maniera troppo liscia …

    1. Oddio, a me non è sembrato, anzi, ho avvertito la difficoltà di Donovan in ogni singolo passaggio, soprattutto nella lunga parte ambientata a Berlino. A cosa ti riferisci, di preciso?

  3. Giuseppe · ·

    E, anche questa volta, Spielberg si fa beffe dei luoghi comuni riguardo al suo cinema andando avanti per la sua strada, tanto i detrattori continueranno a “detrarre” imperterriti (Munich? Lincoln? Uno Spilby maturo? Studiato a tavolino pure quello, per loro, ci scommetterei)…
    P.S. Riguardo all’hype per Star Wars, la decisione di buttare nel cesso tutto quell’universo espanso seguito da molti (compreso il sottoscritto, ovvio) per anni e anni non è che me l’avesse poi fatto salire più di tanto, lo ammetto… E, pure adesso, non sto esattamente smaniando per andarlo a vedere 😦

    1. Su Star Wars: io l’ho visto venerdì, non ne scriverò perché lo faranno tutti e non mi va di ripetere cose già dette da altri. Ma ho apprezzato moltissimo il lavoro di Abrams. Credo sia un ottimo film e, più di tutto, un ottimo inizio per una nuova trilogia proiettata nel futuro. Certo, ha i suoi difetti, come del resto quasi ogni film, ma si perdonano tutti quanti.
      IO una possibilità, fossi in te, gliela darei 😉

  4. Spielberg è il migliore storyteller esistente il film che mi piace di più e Incontri ravvicinati del terzo tipo ,infatti nel ’77 fu l’unico a credere a George Lucas nel suo Guerre Stellari mentre gli altri registi lo sbeffegiarono mi domanò se avesse girato la saga cosa sarebbe uscito fuori….

    1. Sì, lo è. Come narratore per immagini non ha semplicemente rivali. Qualunque cosa faccia.

  5. “Cinema d’autore, perché Spielberg ormai se ne frega di compiacere il suo pubblico e di realizzare opere dall’incasso sicuro e rischia, osa, sfida gli spettatori a seguire una storia di spionaggio priva di azione, con tempi dilatatissimi, dialoghi lunghi e svuotata da quelli che la gente è solita chiamare elementi spielberghiani.”
    Quseta frase mi ha fatto tornare in mente Sugarland Express; il cerchio si chiude

    1. Infatti, che Spielberg fosse un grande autore lo si nota sin dagli esordi. Ora è un signore di una certa età che non deve più dimostrare niente a nessuno e fa proprio come gli pare.

  6. Pensa : io e spilby la pensavamo uguale sull’umanità, ma non sopportavo certi elementi che giudicavo fin troppo studiati per piacere a prescindere. Invece è un bellissimo discorso questo sull’umanità.
    Non amo tutti i suoi film come te, e non è tra i miei preferiti,però è un grandissimo a cui dobbiamo tanto, tantissimo

    1. Io ho sempre creduto che Spielberg fosse sincero, anche quando appariva artefatto. Non ci credo alla costruzione dei sentimenti a tavolino. I sentimenti espressi nei film di Spielberg sono sempre sentiti. Perché è lui il primo a credere fermamente in ciò che dice.

  7. Mi ispira molto, prima svolgo la pratica Star Wars poi vedo questo

    1. Io ho fatto il contrario, perché Spilby ha sempre la priorità su tutto il resto. Anche su Star Wars

  8. Io non sono una spielberghiana di ferro,però magari di qualche lega meno pregiata sì. È che il cinema di Spielberg, pur avendo sempre un messaggio chiaro ed inequivocabile, riesce sempre ad esplicitarlo con grazia ed eleganza. Mi è sembrato che in questo film delicatezza, ironia ed intelligenza straripassero dallo schermo. In un marasma di registi truzzi (che adoro, eh), lui è una sicurezza e sì, qualcosa che si ricorda.

    1. Cinema moderno ma comunque d’altri tempi. Insomma, i film di Spielberg sono e saranno sempre dei classici.
      Anche io adoro i registi truzzi che spaccano tutto. Mi divertono. Ma la classe è un’altra storia e questo film ne è davvero pieno

  9. Blissard · ·

    Grazie per la segnalazione, onestamente prima di leggere (parzialmente, le leggo tutte solo dopo avere visto il film) la tua rece ero seriamente intenzionato a ignorare l’ultima fatica di Spielberg, nelle cui opere più recenti avevo trovato più ombre che luci (Lincoln, in particolare, che trovo film brutto e per molti versi “sbagliato”).
    Invece Bridge of spies mi ha sorpreso in positivo, e per almeno tutta la prima parte la sensazione era di stare guardando un capolavoro; poi, purtroppo, inizia a scadere talvolta nel macchiettistico (i ragazzotti che prendono il cappotto a Hanks, oltre che spie e spioni vari) e talaltra nello “spielberghiano” (inteso in senso deteriore: personaggi con gli occhioni grandi che anche se devono fare i cattivi c’hanno la dolcezza nell’animo), ma gli si può perdonare.
    Grandissimo Mark Rylance, e scusa se ti contraddico ma credo che il ruolo alla Jimmy Stewart l’abbia lui nel film, non Hanks.

  10. Concordo quasi su tutto: ho trovato il film bellissimo proprio nel suo essere anti-spettacolare (devo ancora recuperare Lincoln ma, come dico anche nel post sul mio blog, sono proprio i film fatti di sguardi, dialoghi e silenzi quelli riusciti meglio a Spilby negli ultimi anni). Tom Hanks è tornato grandissimo (le sue ultime prove, specialmente in quelle ciofeche ispirate a Dan Brown, erano state imbarazzanti) e con concordo sull’interpretazione magnifica dell’attore che presta il volto alla spia russa. Mi resta il tarlo degli ultimi minuti, francamente evitabili, in cui si vuole sottolineare il riappacificarsi di Donovan con con la famiglia e con la società americana. E’ sempre un piacere leggerti.

    1. Grazie 😉
      A me invece sono piaciuti anche gli ultimi cinque minuti: lui che torna a casa stanco e vuole solo dormire, i figli che a stento se lo cagano.
      Mi è piaciuta la scena sull’autobus coi bambini che scavalcano il recinto, perché lì capiamo per cosa il personaggio ha lottato tutto il tempo, altrimenti, a mio avviso, sarebbe stato un film tronco.