Maggie

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Regia – Henry Hobson (2015)

Proprio in questi giorni, qui nel blocco C della blogosfera, la discussione verteva sulle storie di zombi e ci si chiedeva se e quanto fosse possibile apportare delle variazioni al tema survivalistico che sembra dominare da sempre il genere. Se l’argomento vi interessa, potete leggere questo post di Davide e questo di Alessandro. Subito dopo averli letti, lasciate pure perdere me e le mie farneticazioni e sbrigatevi a vedere Maggie.
Io so già che il film d’esordio di Henry Hobson, scritto da un altro esordiente (John Scott 3), avrà i suoi detrattori, pronti a deprecarne le eccessive lentezza e seriosità, nonché a lamentarsi perché forse si aspettavano un Arnold Schwarzenegger che spaccava culi a zombi velocisti a suon di fucilate.
E in effetti, in Maggie Arnie non spacca il culo proprio a nessuno. E anzi, è lui stesso un uomo preso spesso e volentieri a calci nel sedere dalla vita. E l’ultimo calcio, la malattia che ha colpito sua figlia, è quello destinato a spezzarlo definitivamente.
Maggie è un film drammatico travestito da zombie movie e con questo dovete venirci a patti. È anche PG13, quindi non ci saranno sbudellamenti o abbuffate a base di intestini. È la storia di un padre che vuole tenere con sé sua figlia infetta fino agli ultimi istanti, sapendo che la ragazza si trasformerà, che lui non può farci niente, che il processo è irreversibile e, quando si compirà, bisognerà prendere una decisione molto dolorosa.
Ed è una delle pochissime opere cinematografiche recenti (mi viene in mente giusto Warm Bodies e per ovvi motivi escludo le serie tv) a riportare lo zombie alla sua originaria funzione di metafora, in questo caso della malattia terminale e dell’eutanasia, dato che gli individui colpiti dal virus, nel film, vengono tutti messi in quarantena, sedati con un cocktail di farmaci e abbandonati lì, in indefinita agonia.

Arnold cazzeggia sul set

Arnold cazzeggia sul set

E sì, Maggie offre, per la prima volta dopo tanto tempo, una prospettiva inedita sugli zombi, allontanandosi dalle dinamiche proprie dell’apocalisse, del collasso del vivere civile, della sopravvivenza a ogni costo, per muoversi in territori più intimi e quindi relativamente nuovi. Se si escludono produzioni micro budget e ultra indipendenti come I Zombie o Zombie Honeymoon, è capitato davvero di rado che qualche regista si sia approcciato al tema in questo modo, avendo oltretutto a disposizione un cast di tutto rispetto e l’icona per eccellenza del cinema d’azione.
Già vedere Schwarzenegger in una parte per lui così anomala è abbastanza straniante. Vederlo piangere poi, è un vero e proprio shock. Ma soprattutto, rendersi conto, dopo anni e anni, che Schwarzy sa recitare, o meglio, sa sfruttare una gamma espressiva piuttosto limitata nel migliore dei modi, fa quasi apparire questo Maggie come l’inizio di una seconda carriera per lui. E sottolinea (sempre che ce ne fosse bisogno) la grande intelligenza dell’attore, che prende coscienza degli anni passano e del non poter essere Commando ancora a lungo e va alla ricerca, nel cinema indie, di film adatti a lui e più posati, rischiando anche di prendersi una bella batosta.

Nel film, la pandemia non ha portato alla distruzione della società. È stata anzi contenuta, sebbene non sia stata sviluppata una cura. Le scuole stanno per riaprire, la polizia fa ancora il suo lavoro, le persone non vivono barricate nelle loro case, scacciando gli intrusi a colpi di fucile, i distributori di benzina sono tutti aperti, e così anche i negozi. Certo, non è tutto come prima, e si vive nella paura che le cose possano peggiorare. A maggior ragione se alcuni tengono nascosti i loro parenti contagiati e si rifiutano di portarli in quarantena.
Il personaggio di Schwarzenegger, Wade, va a prendere sua figlia Maggie (Abigail Breslin) all’ospedale e gli viene dato il permesso di portarla a casa, tenendola sotto costante controllo medico. Quando il decorso della malattia avrà raggiunto il culmine, il destino della ragazza è quello di finire in quarantena con gli altri. Oppure, come consiglia il dottore di famiglia, il padre potrà darle una morte rapida. Altre alternative non ce ne sono. Una guarigione è del tutto impossibile.

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Ed eccoci di nuovo alla vecchia storia (ma sempre molto valida, se ben gestita) dello zombie che si fa specchio della nostra fragilità fisica ed esistenziale. Esseri mortali e con una data di scadenza, anche se a noi ignota. Quando però questa scadenza non si conta in anni, ma in poche settimane e quando la morte diventa una cosa visibile sulla pelle di Maggie che si deteriora, sulle sue ferite in cancrena e nei suoi occhi che perdono colore ed espressione, allora l’evidenza del decadimento fisico e della morte ci appare in tutta la sua chiarezza. Noi siamo Maggie.
Ma siamo anche Wade, costretto ad assistere impotente alla malattia di sua figlia. E siamo la società, che questa malattia la rifiuta e la vorrebbe nascondere. E siamo  Caroline (Joely Richardson), seconda moglie di Wade e matrigna di Maggie, che ci prova in tutti i modi a stare accanto a entrambi fino alla fine, ma non regge e deve andare via.
E non esiste un modo “giusto” di affrontare un evento simile. La macchina da presa di Hobson, estremamente maturo per essere un regista alla sua opera prima, non giudica nessuno. I poliziotti che vorrebbero portare Maggie in quarantena hanno le loro ragioni: non possono rischiare l’espansione del contagio. E non è colpa loro se le autorità non sono in grado di gestire in maniera umana l’emergenza. E comunque, esisterebbe davvero un modo “umano” per affrontare una cosa simile? Persino il concetto stesso di umano, quando si parla di zombi, è messo in discussione.
Per questo il sentimento che prevale in Maggie è una stanca e dolente rassegnazione.

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Il personaggio stesso di Maggie è, sin dai primi minuti, rassegnato alla sua fine. E quindi passa i suoi ultimi giorni rivedendo gli amici, infetti e non, quelli che hanno ancora un futuro da inventare e quelli che condividono con lei l’impossibilità del futuro. Sta accanto al padre mentre ripara il suo furgone scassato, lo ascolta raccontarle della madre scomparsa da anni e della sua passione per i libri e per i fiori, margherite in particolare. Ha persino il tempo di vivere una brevissima storia d’amore. Ma è tutto limitato dalla trasformazione che si approssima. La Breslin è bravissima nell’incarnare l’angoscia di una ragazza terrorizzata e, tuttavia, decisa a mantenere la propria dignità fino alla fine.
L’ultimo saluto di Maggie vi rimarrà nel cuore. Garantito.

Se proprio va trovato un difetto in questa piccola gemma cinematografica è forse in una fotografia un po’ troppo spenta e appiattita su tonalità grigiastre che sì, è una scelta ben precisa e voluta, ma in fin dei conti banalotta. Anche perché, quando in alcune scene i toni si fanno più caldi e Hobson ci fa vedere il sole, il contrasto con l’atmosfera plumbea che permea il film è molto più incisivo.
Però, ripeto, si tratta di scelte, apprezzabili o meno, ma comunque frutto di un ragionamento che rimanda a una precisa identità di stile. Ed è impressionante come Hobson abbia le idee chiare, condivisibili o meno che siano, e come le porti avanti con coerenza dall’inizio alla fine. Mi piace come indugia in primi piani strettissimi sul volto segnato dalle rughe di Schwarzenegger e su quello più giovane, ma sempre segnato dalla malattia, della Breslin. O come non abbia alcun problema nel gestire lunghissimi silenzi, fregandosene della legge del ritmo elevato a tutti i costi.
Maggie purtroppo non ha beneficiato di una distribuzione su larga scala, nonostante i nomi coinvolti nel progetto. Evidentemente, la Lions Gate non ci ha creduto fino in fondo ed è un gran peccato. Sarebbe stato bello vederlo su grande schermo. Costituisce comunque una delle pochissime visioni alternative dello zombie. Ed è una splendida e, in alcuni frangenti addirittura straziante, metafora della malattia e della scelta sul modo in cui mettere fine alla propria vita.

33 commenti

  1. dinogargano · ·

    Devo riuscire a vederlo , anche per vedere un Arnold diverso dallo sparatutto ….
    Bel post , al solito , complimenti .

    1. Grazie, Dino 🙂
      Il tema mi tocca molto, devo ammetterlo. E ho sempre pensato che fosse un compito del cinema dell’orrore farci vedere dove non vorremmo.

  2. Ottimo commento come sempre, questo film è nel mio mirino da un pezzo, non vedo l’ora di vederlo, Arny è sempre Arny 😉 Cheers!

    1. E poi un Arnie così inedito e così sofferto non lo abbiamo mai visto!

  3. La cosa è molto grave. Mi stavo commovendo a leggere il post… figuriamoci cosa succederebbe se vedessi il film…

    1. Ah, io ho pianto per ore dopo la visione… È tosto, davvero.

  4. DAvvero interessante, me lo procurerò di certo. Da vecchio fan di Swarzy non posso farmelo scappare in una parte così strana, per lui.
    Io ci sto provando a scrivere un racconto sugli zombi un po’ (almeno un po’) diverso dal solito. Spero che venga anche bene… 😀

    1. Le storie di zombi non sono mai facili. Soprattutto quando si cerca di andare oltre i cliché tipici del genere 😉

  5. L’ho sempre detto che Arnold è un grande! E questa sua scelta mi piace assai. Cercherò di trovare codesta pellicola, perché mi rammenta assai in the flesh. Inoltre i temi trattati son tra i miei preferiti.

    1. Comunque vedere Arnie che piange è uno shock non da poco

  6. Alessandro Cruciani · ·

    molto “inthefleshana” come cosa e chissà perché io invece me lo immaginavo proprio così: lo vedrò sicuramente.

    1. Sì, con In The Flesh ha delle cose in comune, però è ancora più cupo, perché manca il fattore cura.

      1. Alessandro Cruciani · ·

        we love cupezza. Mi hai fatto rivenire voglia di vedere il corto Cargo.

  7. Mi ha già commosso la recensione, il film mi farà secco…

    1. Io per riprendermi ho dovuto rivedere quindici volte di fila il trailer di FURY ROAD!

      1. Ammazza che tachipirina!

  8. bradipo · ·

    Mi hai anticipato di un giorno e praticamente mi hai tolto le parole di bocca…per me non è neanche un horror ma un dramma lancinante in cui l’iconografia zombie è poco più che un dettaglio. Brividi e lacrime.

    1. Sì, è un dramma travestito da film di zombie. Però, a mio parere, resta un horror. Senza sangue o sbudellamenti, ma intimamente horror

  9. Direi che si conferma cosi la potenza simbolica e allegorica dello zombi nell’ Horror contemporaneo. Interessante.

    1. Ed era una potenza simbolica che stava andando del tutto perduta…
      Perché era stata soffocata dal survivalismo a tutti i costi. Questa potrebbe essere una nuova strada da percorrere.

  10. Giuseppe · ·

    Arnold, zombi, dramma e sentimenti autentici: un mix parecchio interessante, a riprova di quanto Schwarzy continui a essere un’icona del fantastico anche nella sua componente meno spettacolare e più intimista, riuscendo a sorprenderci fino – è proprio il caso di dirlo – alle lacrime.
    Peccato per la scarsa distribuzione… probabilmente, in parte c’è stata anche la preoccupazione che il grande pubblico rimanesse disorientato davanti a uno Schwarzenegger così umano e segnato dalla non-vita della figlia, mettendo a rischio incassi sicuri. Quando invece sono convinto che questo suo nuovo personaggio avrebbe attirato nelle sale anche molti spettatori non necessariamente suoi fan…
    P.S. Il tema è toccante, assolutamente, come lo è il tuo post.

    1. Grazie 🙂
      E comunque il buon Arnie è coraggioso nel prestarsi a questo ruolo per lui così inconsueto. Sono sicura che ci ha messo l’anima nell’interpretare Wade. E si vede.
      L’horror intimista non è semplice. né da girare né da recitare.
      E devo ammettere che mi ha stupito non poco.

  11. La trama suona un pò tipo “padre che non si rassegna a veder crescere e allontanarsi la figlia adolescente. Non si rassegna cioè a “veder morire” la sua bambina”. In salsa zombie, ovviamente. E questo mi rende un tantino perplesso. In ogni caso se trovo il tempo lo vedo.

    1. Oddio, no, non l’ho visto affatto così. Maggie ha una malattia e sta morendo. Il padre è rassegnatissimo e deve solo scegliere il “come” mettere fine al tutto.

  12. Arnie che piange è strano anche per me, che non sono un fan di Arnie. ma il film mi ha immerso bene in una situazione zombesca diversa dal solito. un paio di momenti sono veramente toccanti, anche se non ho pianto come in un paio di scene di In the Flesh…

    1. In the flesh è più “commovente” nel senso classico del termine. L’ho adorato, ne ho anche scritto da qualche parte, e per entrambe le stagioni. Questo è un po’ più asciutto, forse. E comunque, a mio avviso, è diametralmente opposto, da un punto di vista concettuale, a In the Flesh

  13. a dikotomiko non è piaciuto, a te invece molto ….. voglio andare a vederlo, vediamo su quale linea sarò orientato, la tua o quella dei ragazzi di dikotomico, il trailer a suo tempo mi piaque assai

  14. M’hai incuriosito, l’ho visto, ma ho faticato parecchio. Un pugno nello stomaco.

  15. E’ nata una stella. Anzi due. Che poi, io nello zio Swarzy c’ho sempre creduto. Intendo come attore.

    Questo film lo tengo d’occhio proprio perché dovrebbe mettere in riaslto le sue doti attoriali.

    Peccato non se lo siano filato le major. E’ il dramma e la fortuna degli indie.

    Devo vederlo. Bella rece.

    1. Ma ci credevo anche io. Lo seguo con amore e questo film lo consacra definitivamente.
      Però non pensavo avesse il coraggio di mettersi in gioco così

  16. […] Cupo e triste, ma molto umano e profondo, Maggie è un film che fa ciò che altre pellicole cosiddette “horror” hanno dimenticato da tempo: racconta una storia, costruisce dei protagonisti e ce li fa sentire addosso. Per tutto il resto vi rimando alla recensione di Lucia Patrizi. […]

  17. L’ho visto ieri e lo amo incondizionatamente! Per me è uno dei film migliori di questo anno cinematografico tanto che sabato tornerò a vederlo!
    Oltre ad una bellissima storia, portata avanti in maniera ineccepibile, quello che mi ha conquistata totalmente è stata la regia. Sono ancora incredula che si tratti di un’opera prima perché Hobson dimostra una maturità ed uno stile personale che è difficile trovare in molti registi già affermati. Con un’opera prima come questa , se riuscirà a non tradire se stesso, c’è da aspettarsi grandi cose.

    1. Il problema di questi film (credo) sono state le aspettative: Schwartzy più gli zombie e tutti pensavano al classico prodotto spaccaculi. 7
      E invece…